La “Madama Butterfly” per la Prima della Scala. E presto l’originale della “Manon Lescaut”. Alla vigilia dell’apertura di stagione Riccardo Chailly spiega perché guida la rivalutazione critica di uno dei compositori ?più amati dal pubblico mondiale

Riccardo Chailly
Un bel dì vedremo”, recita la famosa aria di Cio-Cio-San in “Madama Butterfly”. Ma per il direttore d’orchestra Riccardo Chailly “il bel dì” è ormai vicino, la sera del prossimo 7 dicembre alla Scala. Perché la rappresentazione del capolavoro pucciniano non simboleggia per lui solamente l’inaugurazione della stagione del Piermarini. Ma anche l’ennesima testimonianza del suo amore per il compositore lucchese. Un sentimento parecchio condiviso, se consideriamo che fra le dieci opere più eseguite oggi nei teatri lirici di tutto il mondo ci sono, oltre a “Madama Butterfly”, anche “ B ohème ” e “Tosca”.

Dunque sbagliava il filosofo e musicologo Theodor Adorno, quando scriveva che il futuro della musica era Arnold Schönberg e non Puccini? «La dichiarazione di stima di Schönberg nei suoi confronti era nota e io la condivido», afferma Chailly nell’intervista che concede in esclusiva all’Espresso, «come l’interesse attivo che aveva Gustav Mahler per la sua opera. Quest’ultimo diresse “Le Villi” ad Amburgo e poi avrebbe dovuto portare sulle scene “Manon Lescaut”, ma non lo fece. Il confronto nella grandezza di orchestratore fra Puccini e Mahler è costante.

Suppongo che la protesta del boemo all’inizio del terzo atto di “Tosca”, a Vienna, quando si allontanò dal pubblico brontolando, fosse dovuta all’intuizione di quanto, riguardo a sottigliezza di compositore, poteva competere con lui l’italiano. Quella voce ingenua del pastorello poteva ricordargli il quarto movimento in forma di Lied della sua Quarta sinfonia, tutte quelle gioie rievocate dalla poesia popolare “Das himmlische Leben”, in un mondo sonoro ovattato, con gli archi in sordina e con le campane di Roma in sottofondo come per Mahler quelle delle greggi al pascolo nelle sue sinfonie (a esempio nel tempo lento della Sesta, ndr).

Pure Luciano Berio, un uomo parco negli elogi, dopo la prima prova d’insieme di “Turandot”, all’Opera di Amsterdam, si espresse con parole di entusiasmo sul fatto che per lui il primo atto rappresentava la più grande musica che qualsiasi autore italiano abbia mai concepito per il teatro. E negli schizzi di “Turandot” rintracciò un abbozzo del finale che si rifaceva a una serie dodecafonica. Perché non dobbiamo dimenticare che Puccini era pure molto interessato agli sviluppi della musica contemporanea: si avvicinò alla produzione dell’autore del “Pierrot lunaire” e ancor prima aveva studiato con passione l’opera di Debussy».

Fascino di Puccini che si spiega dunque in buona parte con la grandezza dell’orchestratore. Ma Chailly è a favore o no delle suite strumentali tratte dalle sue opere liriche? «Un’operazione del genere mi lascia perplesso, anche se non dimentico che lui stesso, all’apice della popolarità, ascoltando alcuni suoi temi musicali eseguiti la domenica mattina in piazza dalle bande locali, ne era contento: in fondo ciò rappresentava una ulteriore dimostrazione di quanto la sua musica avesse conquistato una larga fama. Ho inciso tutto l’esistente del Puccini sinfonico, così come uno dei temi conduttori della mia attività consiste nella valorizzazione del patrimonio strumentale italiano. Per questo assieme alla Filarmonica scaligera abbiamo registrato un cd che raccoglie alcuni brani orchestrali da opere che nell’arco di 130 anni hanno avuto la loro prima mondiale nella sala del Piermarini. Fra questi proprio l’intermezzo da “Butterfly” e il Preludio al quarto atto di “Edgar”. Anche in questo caso l’ascoltatore potrebbe chiedersi: “Ma allora Mahler ha studiato l’“Edgar” prima di comporre l’“Adagietto” della Quinta sinfonia? Perché le prime quattro note dell’episodio centrale sono identiche, ugualmente parte di un rallentando. E create precedentemente rispetto alla partitura del boemo».

Tornando a “Madama Butterfly”, il prossimo 7 dicembre rappresenta in qualche modo il traguardo raggiunto di una giustizia fatta, di un risarcimento, di una scommessa da vincere. Ci spiega Chailly: «Sento questa ripresa della versione originale dell’opera, che ebbe la sua prima assoluta in questo teatro il 17 febbraio 1904, come il compimento di un impegno morale nei confronti di Puccini, per quello che questo autore ha rappresentato per la Scala e nel mondo. Per uno smacco, un torto ingiusto che gli fu fatto allora. Inoltre non è mai troppo tardi per riconoscere il valore assoluto della partitura come fu presentata per la prima volta al pubblico milanese».

Perché appartiene ormai alla leggenda il fiasco che accompagnò la nascita di questo capolavoro, con un cast vocale di tutto riguardo sotto la bacchetta di Cleofonte Campanini. Il lucchese fu molto scosso dalla tremenda bagarre che si scatenò, e per questo ritirò immediatamente la sua opera e decise di non portarne mai più alcuna in prima assoluta nel tempio del Piermarini. Promessa che mantenne senza alcun ripensamento, poiché “Turandot” fu messa in scena da Arturo Toscanini soltanto dopo la sua morte.

«La divisione in soli due atti della durata di un’ora circa ciascuno di quella prima versione rispondeva a un’esigenza di concentrazione drammatica che era evidentemente nello spirito del tempo del teatro musicale europeo», prosegue Chailly.

Basterebbe pensare a esempio agli atti unici di Richard Strauss (“Salomè” è del 1906, “Elektra” del 1909) che condividono con “Butterfly” la scabrosità dell’argomento e la drammatica morte in scena della protagonista. «Puccini forse aveva preteso un po’ troppo dal pubblico scaligero, ancora non abituato a un certo tipo di progetto teatrale», spiega Chailly. «Inoltre non fu ben compreso lo scontro fra due culture, quella americana e quella giapponese. Tutta la parte in cui Pinkerton deride l’attitudine sociale dei parenti di Butterfly nel primo atto, era qualcosa che allora fu mal percepito e gradito».

La rielaborazione di Puccini fu poi un cambiamento non favorevole, in quanto a forza drammatica e modernità del soggetto, rispetto all’originale. «Le faccio un esempio: il peso drammaturgico di Kate, la moglie americana di Pinkerton, verrà meno. Nella prima versione invece ha un rilievo fortissimo l’incontro-scontro con Cio-Cio-San, nel quale si contendono il bambino. Nelle elaborazioni successive invece Kate avrà un ruolo più complementare».

Un’opera cardine nella carriera di Chailly. Con essa debuttò in America a 21 anni, alla Lyric Opera di Chicago, invitato dal Maestro Bruno Bartoletti, «con l’incoscienza di dare a un giovane un’opera di questa difficoltà. Che da allora mi ha sempre accompagnato con soddisfazione e ho sempre ristudiato, sentendone la necessità».
E non è neppure la prima volta che il Maestro si avvicina al suo recupero filologico. «Per me è un ritorno a un concetto e a una scelta. Nel 1996 sempre alla Scala, con la regia di Keita Asari, diressi una produzione inserendovi sei inserti della prima versione di “Butterfly” e riportando l’opera ai due atti, anche se non esattamente nella versione originaria come avverrà il prossimo 7 dicembre.

In quella circostanza con il maestro Roman Vlad, allora direttore artistico della Scala, abbiamo studiato questi inserti, con lui facendo al pianoforte un esame attento di tutti questi brani e riconoscendone il valore, che infine accettò di inserire di buon grado. Anche lo stesso Asari adattò a tali scelte la sua regia. Uno dei risultati più evidenti fu la struttura che si ricreò tra il famoso coro a bocca chiusa e l’intermezzo sinfonico, collegati senza soluzione di continuità, riproponendo un concetto teatrale neowagneriano. Soluzione non più sconvolgente al giorno d’oggi, che assistiamo al “Wozzeck” di Berg, a “Olandese volante” di Wagner o alle opere di Janacek senza pause o intervalli».

Dopo “Turandot” e “La fanciulla del West”, prosegue dunque alla Scala il percorso artistico-filologico che sta riportando tutte le opere di Puccini alle originali intenzioni dell’autore. Il lavoro su Puccini si inscrive in una tendenza della critica più aggiornata, non solo in campo musicale, a non limitarsi a esaminare la forma considerata “definitiva” dell’opera d’arte ma ad approfondirne la conoscenza valorizzandone versioni e varianti, con la consapevolezza che la scelta dell’edizione per la stampa è soggetta a variabili contingenti. «Non si tratta in nessun modo di identificare una versione “autentica” da proporre in antitesi a quella corrente», chiarisce Chailly, «ma di offrire alla conoscenza del pubblico un’immagine del work in progress che la “Madama Butterfly” è stato sempre per Puccini».

Nei progetti scaligeri di Chailly non sono finite le sorprese legate al nome di Puccini: «Nelle prossime stagioni vorrei completare altri recuperi. Anche “Manon Lescaut”, a esempio, sarà messa in scena nella prima versione, come già feci a Lipsia nel 2005. E “Le Villi”, il suo primo capolavoro del 1884, tornerà con il titolo originale “Les Willis” e in un atto invece che in due. Ho inoltre scoperto nell’ultima scena di “Tosca” alcune battute che vengono sempre tagliate nelle edizioni correnti. Insomma, trovo che il mondo pucciniano sia davvero ricchissimo di scoperte».

In questo contesto va il richiamo di Chailly affinché si riaprano gli archivi pucciniani appartenenti a collezioni private. «Abbiamo aspettato un secolo per avere accesso al quarto atto di “Edgar”. Il mio progetto sarebbe di riportare quest’opera alla versione originale in quattro atti senza tagli: ancora non conosciamo quasi un terzo della sua musica. È un fatto importante poter studiare questi manoscritti. Puccini - come Verdi - fa parte del patrimonio più nobile dell’umanità, rappresenta un vero e proprio bene sociale», riflette Chailly.

Gli chiediamo, infine, del cast previsto per il 7 dicembre. «Abbiamo scelto tre voci importanti, idonee ai ruoli. Nelle vesti di Pinkerton Bryan Hymel, uno dei tenori più importanti della scuola americana. In Sharpless ci sarà Carlos Alvarez, che l’anno scorso fu tra gli interpreti di “Giovanna d’Arco”: un grande baritono fino all’altro giorno in scena nelle “Nozze” e che ritorna con me in “Butterfly” dopo la produzione scaligera di vent’anni fa, quando da giovani ne siamo stati insieme protagonisti. Nel ruolo del titolo ci sarà poi Maria José Siri, una voce che sta facendo un itinerario molto importante con la musica di Puccini. Dal canto suo il regista Alvis Hermanis sta realizzando una “Butterfly” che unisce il rispetto della tradizione alle idee innovative, in un percorso che tiene conto figurativamente del Giappone al tempo della vicenda raccontata dall’opera».

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