
Adesso, a 83 anni, l’artista torna sul significato di quella frase, che diventa il pretesto per riflettere sul delicato rapporto tra maestro e allievo, padre e figlio, mentre a Roma, nei sotterranei delle Terme di Caracalla, è esposta la sua nuova opera, “La Mela Reintegrata” (fino al 25 settembre), scolpita in un blocco di marmo puro di Carrara. «All’epoca avevo appena acquisito gli spazi dell’ex lanificio, a Biella, dove negli anni Novanta sarebbero nate Cittadellarte e l’Università delle idee, il grande laboratorio multidisciplinare dove da allora si sono formati tanti artisti provenienti da ogni parte del mondo», dice Pistoletto: «Ho pensato a quel grande spazio vuoto come eredità della mia utopia per le future generazioni».
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Da allora sono passati tanti anni. È ancora importante la figura del maestro?
«Esistono due modelli di insegnamento: i maestri dell’immobilità e i maestri che si muovono verso il futuro. Può essere di grande aiuto l’esperienza di chi nella propria esistenza ha vissuto e ricercato, ma non bisogna restare ancorati al passato. Le nozioni sono utili ma vanno rivisitate».
Al tempo della Rete la produzione culturale è orizzontale. E la trasmissione non avviene più dall’alto verso il basso. Il discorso vale anche per l’arte?
«Certo. L’arte visiva non è un atto puramente individuale e autoreferenziale: alla base c’è sempre il concetto di dualità, su cui si basano anche il Web e la cultura digitale. Due elementi si connettono tra loro e ne producono un terzo che prima non esisteva. Ai giovani cerco di spiegare il concetto della “trinamica”: due poli che nel congiungersi generano un terzo elemento. La tesi, l’antitesi e al centro la sintesi, che è sempre qualcosa di completamente nuovo».
Per lei il primo maestro è stato suo padre, pittore influenzato dal realismo classico di fine Ottocento. A 14 anni ha cominciato a lavorare con lui come apprendista nel restauro di quadri antichi. Com’era il vostro rapporto dal punto di vista artistico?
«Una scuola importantissima. Mio padre mi ha insegnato le basi pratiche attraverso la “téchne”, la tecnica. Uno strumento di orientamento storico, estetico e geografico, che oggi mi permette di distinguere stili ed epoche diverse, soprattutto quando mi trovo a visitare le città».
A 18 anni sua madre la iscrive alla scuola pubblicitaria di Armando Testa, una delle più prestigiose e innovative in Italia. Testa può essere considerato suo maestro?
«Direi di sì. La pubblicità usa l’immagine, la forma e il colore, proiettandoli nella praticità del vivere. Ma devo molto a Testa soprattutto per un altro motivo: mi ha portato a leggere l’arte moderna e contemporanea, che non conoscevo perché mio padre era un artista tradizionale. Nel giro di sei mesi ho conosciuto gli impressionisti e Picasso, Munch e Chagall, e poi cubismo, espressionismo, surrealismo».
Nel libro-intervista “La voce di Pistoletto”, a cura di Alain Elkann (Bompiani editore), lei afferma: «Francis Bacon è uno dei miei maestri moderni, è diventato mio maestro senza praticamente esserlo». Eppure la pittura figurativa dell’artista irlandese scomparso nel 1992 sembra molto distante dalle sue installazioni.
«Negli anni Quaranta e Cinquanta Francis Bacon riporta la figura umana in primo piano. Lui era un figurativo, ma non un figurativo qualsiasi: considerava l’essere umano nel suo aspetto fondamentale e questo per me era importante. Con la differenza che la sua figura è travagliata, espressionistica, vive il dramma esistenziale di quel tempo. Io invece desideravo portare la figura umana fuori dal dramma esistenziale e dalla tragedia della guerra. Con i miei “Quadri specchianti”, all’inizio degli anni Sessanta, il mondo e la società sono entrati direttamente nell’opera».
Negli anni Novanta lei sperimenta a fondo l’insegnamento, all’Accademia di Belle Arti di Vienna, impostando con i suoi studenti un programma che abbatte le tradizionali barriere tra discipline artistiche. Cosa resta di quella esperienza?
«Moltissimo. Il laboratorio Cittadellarte, ad esempio, ne è la conseguenza diretta. Al primo contatto con gli studenti, a Vienna, dissi loro: “Non voglio vedere artisti falliti che escono da questa accademia”. Intendevo dire: la società nel suo complesso ha bisogno di voi, non solo i musei. Mettete la vostra intelligenza creativa a disposizione della società, che può essere trasformata partendo dall’arte».
Non le sembra troppo ambizioso?
«È la società che lo chiede. Sono convinto che l’arte rivesta un ruolo fondamentale per il cambiamento. Per questo ho sempre cercato di mettere insieme diversi linguaggi e utilizzato ogni canale per diffondere i miei messaggi, compresi i concerti rock, formidabili strumenti di comunicazione».
Cosa le piace dell’insegnamento?
«La teatralità. Insegnare è come salire su un palcoscenico, in un certo senso è un’attività performativa. È come lo specchio: non solo della parola, ma anche del gesto, dell’incontro, del movimento. E il teatro è la somma di tutti i linguaggi artistici».
Quale consiglio darebbe a un giovane artista?
«Smetti di pensare uno e comincia a pensare a due. Ci sei tu e la società, nessuno è solo. La solitudine, in politica, può portare all’arroganza e alla dittatura».
Si può imparare qualcosa da un allievo?
«Io gli trasmetto una cosa, lui di rimbalzo me ne trasmette un’altra. E insieme facciamo qualcosa di nuovo. Quando accade è meraviglioso».