
La storia di Ivano è la storia di un pensiero libero, che si struttura come reazione alle limitazioni imposte dal regime autoritario in cui vive e che matura attraverso la scoperta delle cose belle della vita, delle emozioni che esplodono spontaneamente. Una sorta di “romanzo di formazione” transgenerazionale, scritto da un ragazzo che si sente oppresso dal contesto sociale che lo circonda e trova conforto in un linguaggio, “il” linguaggio che a partire dagli inizi del novecento conquista le fasce di popolazione più giovane: la musica.
Musica che il fascismo “arruola” al pari di ogni forma d’intrattenimento e comunicazione, nelle liturgie destinate a plasmare la mente del popolo, e più di ogni altro del popolo bambino e adolescente, il futuro della nazione. Cipriani descrive spesso nella sua memoria il cortocircuito familiare che si innescava ogni volta che, soprattutto a scuola, riceveva stimoli propagandistici che diligentemente riproponeva a casa. Ogni volta, i genitori si trovavano di fronte alla necessità di non rimproverarlo, per non spingerlo ad assumere atteggiamenti che in pubblico si sarebbero rivelati pericolosi, e il desiderio quasi insopprimibile di educare il figlio a rifiutare le manipolazioni mentali.
A scuola […] si imparava anche a cantare, nel senso che […] c'era una maestrina tutta pepe che veniva una volta alla settimana, portava un paio di classi in un'aula grande e organizzava un coro. Canzoni patriottiche o di Natale, s'intende, a seconda dell'andamento del calendario e delle cerimonie, a cui dovevamo partecipare. lo non cantavo molte bene, anzi malissimo, perché ero completamente stonato, al punto da farmi interdire dal coro: ma dovevo restare in aula e far presenza nei gruppo, visto che non sapevano dove collocarmi diversamente. Tuttavia, al fine di aver la sicurezza che stessi zitto, quando la maestra alzava le mani per dare il via al canto, gridava sempre; "Cipriani mi raccomando, zitto… Pronti?" abbassava la mani e tutti cantavano. In quell’ambiente, nel quale ero costretto a stare senza aprir bocca, […] nonostante tutto imparai anche una canzone patriottica, chiamata “L'inno dei legionari”. Mi pare, che dicesse: “Ce ne fregammo un dì della galera/ce ne fregammo della brutta sorte…" un motivetto che, dissero, cantavano le camicie nere di oggi pensando agli squadristi di ieri. Io riuscii ad impararla, anche perché il motivo era semplice e molto orecchiabile. E fu così che un giorno, appena entrato in casa, tutto allegro com’ero e tanto per far sentire che a scuola mi insegnavano un mucchio di cose, mi misi a cantare a squarciagola: "Ce ne fregammo un dì..." e, imprevedibile […] mi arrivò dritto sulla bocca un ceffone dì mamma, Rimasi di sale: mi picchiava perché stonato o c'era dell'altro? Forse nonna stava male? e strillai "Ma perché?". Mamma, che si trovava sempre nella situazione di quella che si arrabbia, ma poi non può dirne la vera ragione, urlò, agitatissima: “In questa casa di parolacce non se ne dicono…". "Ma che ho detto mai ?". “Fregammo, hai detto, e non lo dici più". Ma à una canzone patriottica che cantavano a scuola…”. "E allora la canti a scuola".
