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Cultura
aprile, 2017

Qualunquista, anarchico, gotico: a ognuno il suo Totò

All'epoca i critici non amavano i suoi film. Apprezzati invece da certi scrittori, da Zavattini a Soldati. La rivalutazione ripartì in pieno post-68, con un volume di Goffredo Fofi. Che rende merito al più grande comico italiano di cui il cinema abbia lasciato testimonianza

Totò fa ormai parte dell’arredamento domestico degli italiani: le sue foto nei ristoranti del centro Sud, la sua immagine nei canali televisivi a riempire le fasce orarie più bisognose. Eppure a rivedere e ristudiare i suoi film possono arrivare sorprese: basti pensare ai volumi che gli ha dedicato, alcuni anni fa, Alberto Anile, ritrovando un Totò inedito, alle prese con la cultura ?del suo tempo, con la politica, con la censura.

I critici, si è detto, all’epoca non amavano i suoi film. Che erano spesso modesti, ma non sempre: non solo quelli di Steno e Monicelli, che lo declinavano in versione più “neorealista” (“Guardie e ladri”, “Totò cerca casa”), ma anche certi che più direttamente assecondavano il suo genuino versante farsesco: Mattoli, Corbucci, Mastrocinque. In compenso, Totò era amato da certi scrittori: quelli di derivazione futurista o surreale, che ?in lui vedevano la marionetta umana (il giovane Zavattini, Campanile, Palazzeschi), ma anche acuti osservatori come Soldati o Flaiano. I fortunati, all’epoca, dicevano che il vero Totò era quello teatrale, che dal vivo potevano apprezzarsi al meglio le sue qualità. Probabilmente è vero; forse per questo uno dei suoi film più memorabili è “Totò a colori” (1952), centone di suoi numeri di varietà, lievitati e portati a perfezione da anni di improvvisazioni. E non a caso hanno avuto fortuna negli anni varie antologie dei “numeri” più famosi, che sono in fondo una forma legittima di mostrare i suoi film.
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La sua rivalutazione ripartì in pieno post-’68, con un volume ?di Goffredo Fofi. Ma alla fine della carriera c’era stato, come ?è noto, l’incontro con Pasolini. Il quale, forse più ancora che ?in “Uccellacci e uccellini”, fece risplendere il suo genio negli episodi a colori, “La terra vista dalla luna” e “Che cosa sono le nuvole” (in cui, Iago tinto di verde, recita una delle morti più strazianti viste al cinema, depositato in una discarica da Domenico 
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Modugno). Rimane infine il rimpianto di non averlo potuto vedere nei panni di San Giuseppe da Copertino, il “santo cretino” che volava, in “C’era una volta” di Francesco Rosi (il produttore Ponti bocciò l’idea).

Ognuno, ovviamente, ha il suo Totò preferito. Personalmente, mi piace ricordare il versante nero, gotico, di “Totò Diabolicus” o “Che fine ha fatto Totò Baby?”. Del resto, Mario Monicelli sosteneva che Totò gli faceva un po’ paura: la sua faccia era un teschio, come la maschera di Pulcinella; anche la critica americana Pauline Kael scriveva dei «suoi occhi stanchi, che hanno visto tutto». Un aspetto colto magnificamente da Alberto Lattuada, che nella “Mandragola” (1965) lo fa monologare nelle catacombe.
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Qualunquista e anarcoide, aristocratico e plebeo distruttore delle convenzioni, Totò è senza dubbio il più grande comico italiano di cui il cinema abbia lasciato testimonianza, ed è l’ultimo “comico primario” di un’Italia povera, mosso dal bisogno di cibo e di sesso. È forse difficile, per chi è nato dopo la sua morte, cinquant’anni fa, inserirlo nel mondo da cui proveniva, forse perfino capirlo. Mi viene quasi il timore, per un attimo, che un giovane oggi possa apprezzare Totò, ma non ridere davvero con lui.

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