Video e interviste, ricordi e documenti. Per raccontare chi è riuscito a fuggire da Al-Sisi. Unendo il meglio del giornalismo e della recitazione. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica

Il reportage diventa teatro per raccontare la "Fuga dall'Egitto" di chi ha creduto nella primavera del 2011

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La primavera araba, le speranze, la folla in Piazza Tahrir. E poi la delusione, la repressione, l’esilio. La diaspora egiziana è protagonista di “Fuga dall’Egitto”, scritto e interpretato da Miriam Selima Fieno e Nicola Di Chio dal libro omonimo di Azzurra Meringolo Scarfoglio (Infinito). Uno spettacolo teatrale che unisce video, interviste, musica e recitazione per contrapporre l’entusiasmo del movimento del 2011, il terrore del golpe e poi il carcere e la fuga. Seguiti da una paura costante che non si attenua neanche quando tra i giovani protagonisti della “primavera” e il sanguinario regime di Al-Sisi c’è la distanza che passa tra il Cairo e la Germania o gli Stati Uniti. Fino al 20 marzo “Fuga dall’Egitto” è tra il Tieffe Teatro Menotti di Milano, poi in tournée da Cuneo a Bari. Ne abbiamo parlato con gli autori

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Perché occuparsi della diaspora egiziana, e perché ora?

Miriam Selima Fieno: «Ho incontrato Azzurra al festival di Internazionale dove ero stata invitata a leggere alcuni brani tratti dal libro, e abbiamo deciso insieme di provare a costruire qualcosa intorno a quelle storie. Era il 2019 e io iniziavo con Nicola ad approfondire un percorso legato al teatro documentario, un genere che intreccia i codici del teatro e del cinema del reale. Ci interessava approfondire quello che ci lega al Mediterraneo, al Nord Africa e al Medio Oriente. Abbiamo pensato subito che non dovevamo recitare: io non potevo interpretare nessuno degli esuli, l’idea era di incontrare dal vivo i protagonisti di alcune storie, ripercorrere il cammino di Azzurra ma in modo diverso, perché lei è una giornalista e noi siamo artisti. Durante la pandemia si è creato un legame a distanza con alcuni protagonisti del libro, abbiamo raccolto materiale, abbiamo continuato a lavorare anche se eravamo pieni di dubbi, che sono espressi nello spettacolo.»

Foto Atelier Produzioni

Che genere di dubbi?

«Perché raccontare quelle storie ora, perché farcene carico proprio noi. Io ho un legame geografico con quella zona perché mio padre è libico. Però secondo me parlare di Egitto è parlare di umanità, di qualcosa che ci riguarda tutti: perché è legato a quel Paese, perché è un Paese mediterraneo, ma anche perché è importante rendersi conto delle responsabilità che noi europei abbiamo verso l’Egitto. Per me c’era anche l’esigenza di definire la mia identità rispetto al mio sangue misto, ma questo è solo un aspetto. Credo di avere una responsabilità quando decido di salire sul palco e raccontare una storia: voglio una storia che sia utile a raccontare il presente, a capire cosa ci lega ai paesi di là del Mediterraneo. È una questione che riguarda tutti».

Questi racconti sembrano mostrare l’altra faccia del caso Regeni. Quando è stato ucciso, noi italiani siamo stati accusati di renderci conto delle atrocità di un regime con cui continuavamo ad avere rapporti commerciali solo perché era morto un italiano. Voi invece date voce agli attivisti egiziani perseguitati da Al Sisi. Chi sono?

«Ho contattato molte persone, ma poi il cerchio si è ristretto perché alcune hanno avuto paura di ritorsioni e hanno deciso di abbandonare il progetto: lo racconto nello spettacolo. Alla fine sono rimasti in quattro: tre uomini e Yasmine Elbaramawy, la musicista che è con me sul palco: ha scritto le musiche e le suona dal vivo, con l’oud. Uno degli attivisti, Ahmed, racconta che la campagna per la sua liberazione che fu lanciata da sua sorella ha avuto successo perché lui era già legato alla Germania, dove ora vive. Avere rapporti con l’Occidente è importante, solo così si può sperare di uscire dal carcere. Per gli altri, quelli che loro chiamano “i non privilegiati”, non c’è speranza».

Che storie raccontano?

«Portano tre testimonianze molto diverse, hanno vissuto la rivoluzione ognuno a modo suo anche per questioni di età. Anche Yasmine era scesa in piazza, e racconta come ha creduto alla rivoluzione. La sua storia è particolare, anche perché è una donna. Al pubblico così viene data la possibilità di scegliere dove stare perché le posizioni rispetto a quello che è successo in Egitto sono diverse. Lo spettacolo non dà soluzioni ma fa riflettere su quello che succede e su quanto ci coinvolge. Ci tenevo molto ad avere una presenza dal vivo anche perché io ho un legame con il Nord Africa ma non sono egiziana; quindi, perché dovevo proprio io prendermi il diritto di raccontare tutto questo? E così c’è Yasmine, che porta il suo racconto anche attraverso la musica».

Come funziona lo spettacolo? Come riuscite a unire video registrati e recitazione?

«Sul palco siamo in tre: io, che guido la narrazione, Yasmine e Nicola, che cura la parte video, molto complicata: in pratica la sua è una performance centrata sulla gestione dell’apparato tecnologico. Ci sono due schermi grandi, 5 metri per 3 e 2 per 3, un tavolo e due telecamere che lavorano in diretta. Io dialogo con il video, porto avanti la narrazione di quello che è successo nei due anni di ricerca sulle tracce di queste persone, la storia di quelle che hanno lasciato il progetto. Utilizzo una telecamera dal vivo per mostrare documenti, le foto e i video che ho sul cellulare. Lo spettacolo è un dialogo continuo tra il mio racconto e le testimonianze. Nei video si vedono gli incontri con i tre protagonisti, intervallati da documenti dei processi, foto della liberazione…».

Mi sembra che lo spettacolo, come il libro, cerchi di dare voce anche a chi non può parlare: chi ha parlato con Meringolo ma non è voluto comparire sul palco, ma anche chi è ancora in carcere; tutti quelli che, a differenza di Patrick Zaki, non hanno avuto una campagna di stampa…

«Le persone che si sono ritirate mi hanno chiesto di dire che non se la sentivano e perché. Il fatto che io abbia avuto l’autorizzazione di raccontarlo, pur cambiando i nomi, è un momento forte perché così ci rendiamo conto della pericolosità di quello di cui parliamo. La storia di Zaki viene in mente facilmente quando parla Ahmed, ma ci sono ancora 70 mila prigionieri politici, le storie che raccontiamo sono esempi. Per i tre protagonisti lo spettacolo era un modo per portare avanti la loro battaglia, per combattere per chi è dietro le sbarre, mentre il nostro scopo era parlare di alcuni per parlare di tutti. Noi abbiamo raccolto solo quattro storie – più una che non approfondisco perché non posso raccontare tutto - ma sono storie che ne rappresentano tante, anche quelle di Giulio e Patrick. E ci tengo a sottolineare che i tre testimoni rischiano tantissimo anche solo per avermi dato la fiducia di portare la loro testimonianza su un palco come questo. Non è solo uno spettacolo teatrale, c’è qualcosa di più».

Di Chio, come è nato il vostro lavoro nel teatro documentario?

Nicola Di Chio: «Noi partiamo dal teatro, siamo entrambi attori per formazione. Ma in questi spettacoli sfruttiamo l’interazione tra teatro e cinema del reale, tra la forza e la tridimensionalità dell’attore e la bidimensionalità delle immagini. “Fuga dall’Egitto” finisce per essere un reportage portato sul palco, e così racconta quello che è successo nel 2011 in modo diverso da come lo abbiamo visto finora. Confrontandoci con giornalisti che sono stati sul campo, abbiamo visto che durante le primavere arabe, con l’uso di video fatti con il cellulare e rilanciati dai social, è nato un modo nuovo di raccontare la realtà. Portando quei video sul palcoscenico, noi uniamo la forza del giornalismo, della testimonianza diretta, e quella del teatro. Gli articoli di giornale diventano alla lunga ripetitivi, e chi va a teatro ha un rapporto diverso con chi è sul palco rispetto a chi guarda un telegiornale: in questo modo le informazioni non prendono solo la testa ma colpiscono dalla testa ai piedi… Per arrivare a questo risultato, quando iniziamo a lavorare a un nuovo spettacolo ci sediamo intorno a un tavolo anche con attivisti, registi, videomaker. Noi proviamo a lavorare sugli stessi fatti che altre categorie raccontano in un’altra maniera».

E come risponde il pubblico?

«Devo dire che le soddisfazioni più grandi finora ci sono venute dall’estero. Sia “Fuga dall’Egitto” che lo spettacolo sulla Siria a cui stiamo lavorando ci vengono richiesti da festival di giornalismo e di cinema, oltre che di teatro. E questo è bello perché noi vogliamo appunto contaminare il teatro, renderlo meticcio. Ogni mattina ci chiediamo cosa possiamo fare per raccontare in modo diverso storie che conosciamo magari già tutti, ma che il palcoscenico fa sentire in modo diverso: unendo razionalità, emotività e sentimenti come solo il teatro può fare».

 

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