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Cultura
novembre, 2023

Alessandro Baricco è tornato al romanzo. A modo suo

Lo scrittore torna in libreria con Abel, un western metafisico. E continua a innovare nel suo stile

Quando – era il 2016 – morì Umberto Eco, Alessandro Baricco scrisse l’articolo più bello che si potesse leggere la mattina dopo sull’intera stampa italiana. Fino a che ha scritto molto per i giornali, ha oggettivamente abitato quello spazio come nessun altro. Ma tornando a Eco: periodicamente – scrisse – nello sport che si chiama “fare gli intellettuali”, «arriva qualcuno che non si limita a giocare da dio: quelli entrano in campo, giocano, e quando escono, il campo non è più lo stesso». Chiarì il modo imprevisto in cui Eco fosse andato a cercare qualcosa di diverso, nello spazio del sapere, e come avesse inaugurato «una nuova stagione dei libri». Omaggiando l’autore del “Nome della rosa” – ho avuto l’impressione – Alessandro Baricco stava illuminando per certi versi una parentela: non diretta, naturalmente sghemba. Un’eredità fatta non tanto di teoria, ma di «una serie di esempi, di gesti, di colpi, di mosse».

 

Capire uno come Baricco significa mettere prima di tutto a fuoco una differenza: è del 1958, ma è lo scrittore meno novecentesco di tutti. L’anagrafe lo ha piantato lì, nel ventesimo secolo; la fantasia e lo slancio – direbbe lui: l’audacia – l’hanno portato altrove. È più giovane e innovativo di qualunque suo coetaneo; è più avanti nella consapevolezza dei gesti rispetto ai trenta-quarantenni. Non è detto che se ne siano accorti: ed è questo il segno che ho ragione io. La maggioranza pensa al fare libri come se fossimo ancora nel 1991: l’anno in cui un Baricco trentacinquenne debuttava come romanziere e poco dopo come narratore in televisione. Prima di opera lirica, poi di libri. Si vada su YouTube a recuperare qualche clip di “Pickwick”, con Giovanna Zucconi; o di “Totem”, con Gabriele Vacis. Si manifesterà un’evidenza: che nessuno, in quel campo, ha usato la tv producendo qualcosa di neanche vagamente paragonabile. Anzi: nessuno l’ha usata più così.

 

Sembra un’apologia? Non nelle intenzioni: si tratta di mettere nero su bianco una verità sgradevole e forse sgradita. In un Paese come questo, in cui innovare è gesto rivoluzionario, e poco praticato, Baricco è riuscito a essere innovativo, e a esserlo ininterrottamente. Avverbio fastidioso, ma utile a chiarire che nello stesso giro d’anni in cui circolavano a piede libero autori post-moraviani aveva già fondato una scuola di scrittura sul modello americano. Un bene? Un male? Un dato di fatto. Ha colto una domanda che non era stata ancora platealmente espressa e che lui ha descritto come la richiesta di partecipazione a una cerimonia del tè di massa. Un giorno in tanti – aveva intuito – avrebbero voluto scrivere, con l’idea di affidare alla scrittura «il compito possibile di portare brevi esistenze individuali a compimento». 

 

La copertina del romanzo "Abel un western metafisico"

 

Eccoci qua. Alla rinfusa si potrebbe aggiungere la scintilla che ha portato Baricco a scrivere, a puntate, su un giornale, un saggio sul populismo culturale (non lo definirebbe così, ma è per intenderci) come “I Barbari”: guardando alla fine delle ipoteche novecentesche senza sconcerto né tono apocalittico. E ancora: le lezioni nei teatri (né conferenze, né presentazioni di libri: in senso classico, non ne ha mai fatta una). Nel 2021 ha pensato a un mini-saggio gratuito modellato sull’orizzonte di lettura dello smartphone. Qualche anno prima aveva rimesso a posto i pezzi della rivoluzione digitale, scrivendo “The Game” come fosse un romanzo – l’unico romanzo possibile di quest’epoca – e dando l’impressione che non volesse scriverne più, di romanzi. Poi deve averci ripensato, ed ecco “Abel” (Feltrinelli), il western metafisico appena arrivato in libreria. L’affascinante assunto di “The Game” – la rivoluzione tecnologica come fuga dagli orrori del ventesimo secolo – suppongo abbia a che vedere anche con una sua insofferenza per certi parametri e perimetri del Novecento italiano. È vero che ha chiamato Novecento uno dei suoi personaggi più felici, ma ha scelto di lavorare senza farsi ricattare dal passato. Più semplicemente: marcando una discontinuità. Nei riferimenti letterari (prendete i primi fortunatissimi libri, “Castelli di rabbia” e “Oceano mare”), nella postura (gli scrittori erano balbuzienti e schivi, sostanzialmente invisibili: eccolo là, lui, con le maniche di camicia arrotolate). Né ha mai preso in considerazione l’idea che fare lo scrittore potesse bastare. E di più: che nello specifico del “fare lo scrittore” si potesse tenere inserito il pilota automatico. «Il fatto – ha scritto – è che chiunque ami la forma romanzo, o addirittura la pratichi come mestiere, sa che è una forma esausta (tipo “olii esausti”, un’espressione bellissima che appare di tanto in tanto ai distributori di benzina). Non c’è problema a farla durare ancora decenni: ma solo quelli privi di talento pensano che vada bene così. Gli altri sanno che è un paradiso un po’ asfittico». Tre romanzi scritti in fila, romanzi che forse i suoi lettori della prima ora hanno amato un po’ meno e che caporedattori dei giornali e critici di professione hanno ignorato, rappresentano la sua exit strategy dal paradiso asfittico. Si chiamano “Emmaus”, “Mr Gwyn” e “La Sposa Giovane”. Io li ho amati molto: mi piacciono più di “Oceano mare” o “Seta”, per dire. 

 

Ma soprattutto ho avuto l’impressione che Baricco mi stesse dicendo: vedi? Sembra che io stia facendo dei romanzi, invece sto friggendo un olio nuovo, o comunque non esausto. Avrei bisogno di troppe righe ancora per spiegare come in ciascuno di quei tre libri sia presente un piccolo atto di rivolta. Provo a riassumere rozzamente: contro le comodità di certa autofiction (“Emmaus”, l’unico in cui Baricco sveli un po’ di sé senza svelarsi), contro la pressione dell’industria culturale a ripetersi (“Mr Gwyn”, con un’idea commovente), contro romanzi fatti di «storia e trama senza stile» (“La Sposa Giovane”). Una volta, quando si incazzò con alcuni critici che lo liquidavano in modo sbrigativo, rivendicò «un’idea differente di libro, di narrazione scritta, di emozione della lettura», cosciente del fatto che per alcune persone «colte e intelligenti» i suoi libri «stanno alla letteratura come il fast food alla cucina francese». Esagerava forse, benché sia vero che ha subìto il facile snobismo di chi ha smesso da tempo di leggerlo.

 

Peccato: anche in “Abel”, giocando con un fondale già nitido nell’immaginario, il western, le pistole, i saloon, compie un sofisticato lavoro di distillazione. Distilla il letterario (l’aggettivo è pochissimo frequentato, ormai; indica un certo modo di pensare lo stile come voce, corpo, unicità) e perfino il filosofico (il “conte philosophique”, tornando alla cucina francese), mira a un’immediatezza da videogioco, ma ogni livello è una tappa spirituale. Il giovane Abel Crow, pistolero leggendario, anziché imparare a morire (quello l’ha imparato subito, nella furia dell’Ovest), impara a nascere. E Baricco – baricchianamente divertendosi a spargere i suoi tic – mette sul campo tutto ciò che lo ossessiona. Il sapere dei corpi. Le verità del desiderio. La passione «cieca, maleducata, aggressiva e vergognosa» con cui l’umano rimodella il creato e ne produce uno a sua immagine. Con una «autostima delirante», e facendo prevalere il talento e l’audacia sulle belle maniere. Sta parlando di un epico West, o forse di cosa significa scrivere.

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