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Cultura
aprile, 2023

Com’è fragile Istanbul nei ritratti di Caimi & Piccinni

Primi piani, dettagli, panorami. La capitale della Turchia è al centro di una delle mostre del Festival Europeo di Reggio Emilia. Un lavoro complesso che gli autori spiegano in questa intervista. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica

Un occhio nero e un occhio blu. Musulmani in preghiera. Una donna avvolta in un velo bianco, quasi una moderna Madonna con un bambino in braccio. E poi grattacieli, rami di alberi contro il cielo, due zollette di zucchero. Sono alcuni frammenti di Turchia raccolti nel progetto “Güle Güle” di Jean-Marc Caimi & Valentina Piccinni, un caleidoscopio di foto contrapposte: ognuna delle immagini in mostra al Festival Fotografia Europea di Reggio Emilia accosta due aspetti del lavoro, che ha scavato tra le pieghe degli strati più fragili della popolazione di Istanbul.

 

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È solo uno dei tanti focus selezionati da Tim Clark, Walter Guadagnini e Luce Lebart per il festival in programma dal 28 aprile all’11 giugno tra i Chiostri di San Pietro e altri spazi della città. Un’esposizione che festeggia la diciottesima edizione con la designazione di Photo Festival of the Year vinto all’ultimo Lucie Awards di Los Angeles, il premio più ambito nel settore. Intorno al tema “Europe matters: visioni di un’identità inquieta” si raccolgono lavori di fotografi famosi ed emergenti: dalla demolizione del concetto di razza firmato da Monica De Miranda alla Gran Bretagna multietnica di Simon Roberts, dal Meridione italiano di Alessia Rollo alla metamorfosi di Odessa, ieri città dei sogni e oggi campo di battaglia, raccontata dall’ucraina Yelena Yemchuk (il programma completo su www.fotografiaeuropea.it).

 

In dieci anni di collaborazione Caimi & Piccinni hanno collezionato premi (dal Sony World Photography Award all'Italian Sustainability Photo Award), mostre (Biennale Für Aktuelle Fotografie, International Month of Photojournalism, Voies Off, Festival Della Fotografia Etica) e sei volumi di fotografie. In questa intervista raccontano le origini e il senso di “Güle Güle” (in turco vuol dire arrivederci) e di tutto il loro lavoro.

 

Come è nato questo progetto? Quando lo avete realizzato?
«“Güle Güle” è il terzo capitolo di una serie di lavori personali che abbiamo realizzato sulle città. Prima di Istanbul, abbiamo raccontato Napoli e Roma, e in questo momento ci troviamo da tre settimane a Strasburgo per aggiungere un nuovo tassello a questa mappa atipica di luoghi che subiscono, agiscono o resistono ai cambiamenti, che vivono un momento di transizione. Prima di decidere che Istanbul sarebbe stato uno dei capitoli di questa serie, ci siamo a lungo documentati per capire ciò che più era coerente con ciò che volevamo e ci interessava raccontare e interrogati sulla chiave visiva per farlo. Durante questo processo ideativo, comprendendo a fondo le diverse realtà che formano il tessuto sociale stesso della città, è emersa chiaramente la voglia di restituire fotograficamente la complessa energia che la muove. Il flusso potente e inarrestabile di umanità, di idee, la spinta verso il futuro, verso il cambiamento, che è esattamente ciò che ormai da anni il governo turco teme e cerca di soffocare».

 

Come avete stabilito un contatto con le persone fotografate? Vista la situazione politica tesa, erano diffidenti?
«Essendo fotografi documentaristi, il nostro approccio, anche per i progetti personali, si basa su una prima fase di studio del luogo che andremo a raccontare, attraverso una ricerca di contatti, antecedenti la partenza, che possano essere i primi punti fermi per cominciare a entrare in relazione con la città e i suoi abitanti. Abbiamo iniziato così dalla comunità curda, tra le più vitali e contestate di Istanbul. Quindi, una volta sul posto, come per un effetto domino, una persona ci ha portato ad un’altra, traghettandoci nei microcosmi che formano la città. Grazie al nostro approccio umano e mantenendo sempre un profilo personale il più possibile in sintonia con i differenti contesti in cui ci siamo troviamo, siamo riusciti a partecipare alla vita di differenti comunità, principalmente le più fragili, che a nostro avviso rappresentano il vero volto di Istanbul: da quella curda alla comunità LGBTIQ+, dai rifugiati siriani agli abitanti dei quartieri vittime della massiva gentrificazione, dalla comunità afro a quella degli studenti, sino alla parte più conservatrice della società».

 

Ogni immagine in mostra accosta due scatti: c'è un metodo negli accostamenti? O rimandate tutto all'interpretazione di chi osserva?
«Il nostro approccio fotografico è circolare piuttosto che lineare. L’accostamento di due immagini, prese nella maggior parte dei casi in contesti differenti, crea un cortocircuito di senso, un surplus di significato che porta chi guarda ad interrogarsi su ciò che sta osservando. In linea di massima gli accostamenti sono il frutto di un editing istintivo, inteso come un atto creativo esso stesso, parte integrante della realizzazione del progetto. Non si tratta esattamente di interpretazione, le immagini sono reali, mai manipolate, e l’utilizzo del flash, che rivela con pienezza ogni dettaglio, ricerca nella forza e nella verità di ogni situazione e dei soggetti fotografati bellezza e poesia. Attraverso l’accostamento di due o più immagini l’osservatore è costretto a porsi delle domande. Il nostro è da un lato un invito a documentarsi, ad approfondire, a comprendere, dall’altro a godere dell’immediata forza delle immagini».

 

Potete fare qualche esempio di come sono nate le singole foto e gli accostamenti?
«Le foto sono frutto di incontri a volte approfonditi, a volte casuali. Pur prive di didascalie, sia quando sono esposte, sia nel libro (“Güle Güle”, è stato pubblicato da André Frère Éditions), ogni singola immagine è portatrice di una storia simbolica. Abbiamo incontrato Berivar, la bambina con gli occhi di colore diverso, a Tarlabasi uno dei quartieri più antichi di Istanbul, simbolo esso stesso dei profondi cambiamenti in atto nella città a causa della prepotente gentrificazione. Nonostante la massiccia azione di ristrutturazione forzata con il conseguente sfratto degli abitanti, le comunità più svantaggiate sono ancora la presenza più numerosa del quartiere. Berivar, giovanissima rifugiata siriana, è fuggita dal suo Paese e si è infine stabilita nel quartiere insieme a una sua lontana parente. La donna ci ha raccontato che i genitori della bambina sono morti durante la guerra e che il motivo per cui lei si è salvata è un dono divino di cui è portatrice e che si dimostra, ai più, attraverso i suoi occhi».

 

Altre immagini ritraggono alcuni giovani della scena queer di Istanbul: come sono nate?
«Dietro quelle foto c’è una prolungata frequentazione del circuito intellettuale e underground della città. La scena LGBTIQ+, seppur costantemente attaccata dal governo, è particolarmente vivace in città ed è connessa ai movimenti studenteschi. Insieme, questi due microcosmi combattono contro la sempre più violenta repressione di cui sono vittime, a causa di un governo dittatoriale, quello di Erdogan, che ha puntato molto sulla islamizzazione sia per motivi geopolitici sia per polarizzare il più possibile la società. Il pullulare di università di stampo religioso e l’ingerenza del governo che cerca di piazzare rettori fantoccio nelle più importanti facoltà della città, fa parte di questo piano di appiattimento culturale che ha lo scopo di rendere anche i giovani più manipolabili».

 

La Turchia e i suoi abitanti sono considerati diversi dagli italiani in modo quasi macchiettistico, basta un nulla per ritrovarsi ancora al “mamma li turchi!”… E gli italiani in Turchia?
«Non crediamo che la percezione dei turchi sia più macchiettistica di quella degli italiani, che all’estero sono taggati costantemente con quattro parole chiave: pizza, mandolino, mafia e Berlusconi. Ben più probabile che ci sia una minore conoscenza e dunque stereotipizzazione di questa nazione rispetto all’Italia. Quando si parla di Turchia non si parla solo di turchi, ma ad esempio, anche di curdi, che costituiscono più del venti per cento della popolazione. La Turchia, e Istanbul in particolare, è un luogo ricco di contrasti al suo interno e con una popolazione molto differente per provenienza, ideologia, cultura. Ci sono comunità con le quali ci siamo sentiti in totale affinità, altre attraverso le quali abbiamo avuto modo di approfondire certi aspetti della sfaccettata tradizione islamica, altre ben più effervescenti e vitali della scena alternativa italiana».

 

Nel corso di questo lavoro a Istanbul avete avuto problemi per la differenza di cultura, o al contrario è stata di aiuto, oppure non l'avete notata affatto?
«Come fotografi documentaristi abbiamo viaggiato in moltissimi Paesi nei quali culture, lingue e tradizioni differiscono dalla nostra. I problemi non sono mai legati alle differenze culturali ma al comportamento dei singoli, a prescindere dal contesto di cui fanno parte. Lo sforzo che cerchiamo sempre di fare è quello di comprendere il più possibile il contesto nel quale ci muoviamo per poter realizzare un lavoro fotografico il più possibile partecipativo e personale. Istanbul, come altre città come ad esempio Kiev, sono ben più affini alle nostre città di quanto la maggior parte degli Italiani possa immaginare».

 

L'Espresso ha pubblicato le vostre foto sulla xylella (per un articolo che ho scritto io), poi ricordo un vostro reportage sull’Ucraina e altri su paesi diversi. Qual è il filo che lega i vostri lavori?
«Per fare un esempio, in Burkina Faso abbiamo realizzato “The Girls Who Repair Cars”, una bellissima storia di un gruppo di ragazze che frequenta una speciale scuola per diventare meccaniche, con la speranza di emanciparsi da una condizione di povertà estrema che grava sul Paese, e soprattutto sulle donne. Riguardo all’Ucraina, il progetto “No Woman No Cry”, realizzato quest’anno al confine tra Ucraina e Polonia, racconta la storia delle donne costrette a fuggire dal proprio Paese portando con sé solo pochissimi beni personali. Il progetto si forma in dittici: un ritratto della donna e uno still life di un oggetto, per loro importante e simbolico, che sono riuscite a portare via durante la fuga. Queste storie, come anche quella del nostro lavoro a lungo termine sulla xylella, sei anni di fotografie che recentemente sono diventate un libro, “Fastidiosa”, per l’editore inglese Overlapse, hanno tutte al centro le persone che fanno o subiscono la Storia. Ciò che ci interessa maggiormente sono principalmente le vicende umane, e per ogni progetto che sviluppiamo cerchiamo sempre di mettere l’accento sul “chi” piuttosto che sul “cosa”, sia essa una guerra, un disastro ambientale, una storia di emancipazione femminile o il racconto di una città. Andare a fondo, costruire il racconto in verticale, entrando in contatto diretto con i protagonisti, raccogliendo le testimonianze dirette di coloro che si trovano a “fare” la storia che stiamo raccontando. È dunque un approccio fotografico che predilige lo scambio personale, ed esteticamente il ritratto, come forma di documentazione».

 

Lavorate da dieci anni in tandem, ma come dividete il lavoro? Vedere film firmati da due registi non è più una rarità, ma quello del fotografo generalmente è considerato un lavoro solitario…
«Una cosa molto importante è la visione fotografica comune. Sappiamo entrambi molto bene cosa vogliamo ottenere da un progetto fotografico, quali foto scattare, in che modo farlo e in che direzione emotiva ed estetica muoversi. Il materiale che otteniamo dalle foto di entrambi è molto compatto e coerente. Questa “sincronizzazione” è avvenuta sin da subito in modo naturale per poi affinarsi nel corso del tempo e dei lavori svolti. I nostri ruoli sono fluidi. Sul campo possiamo scattare entrambi oppure a turno occuparci, ad esempio, delle luci. Essere in due, inoltre, ci facilita molto in ciò che caratterizza principalmente il nostro approccio fotografico: entrare in contatto con le persone e innescare subito una relazione di fiducia reciproca. Crediamo che essere una donna e un uomo rassicuri i nostri soggetti, li faccia sentire più facilmente a proprio agio, e questo ci permette di entrare in modo più disinvolto nelle vite di coloro che stiamo raccontando».

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