Nella mente rivedo quella sbiadita immagine in bianco e nero, che è stata oggetto di ore di contemplazione. Non ho bisogno di averla qui per vedere quei due uomini, uno etiope e uno italiano. L’etiope indossa un paio di calzoni laceri. Una giacca enorme gli pende sbottonata sul petto nudo, su cui incrocia le braccia ossute. È scalzo. E sebbene sia difficile dargli un’età, i suoi capelli scuri sono abbondantemente intrisi di bianco. Sbircia l’obiettivo con il mento basso, la bocca è una riga triste. Nella sua espressione: qualcosa che pare dolore, qualcosa che potrebbe anche essere confusione.
Eri stato tu a notare l’assoluto contrasto tra lui e l’italiano, che è più alto e assai più robusto. Ben vestito, con una camicia abbottonata quasi fino al collo e sotto una maglietta. I calzoni sono puliti, integri. Il cappello è di sbieco e, ripensandoci ora, capisco che gli protegge la faccia dal bagliore del sole. Ecco perché può guardare direttamente in macchina, indifferente al riverbero. Ha le scarpe. La sua espressione, mentre guarda sollevando il mento, è rilassata. Forse perfino soddisfatta.
Ho osservato per un’infinità di tempo lo spazio vuoto all’altro lato dell’italiano. C’è l’etiope. C’è questo italiano. Poi c’è una strana chiazza senza niente. Ha le dimensioni di un essere umano, ce ne starebbe un altro. Fu proprio questo fatto insolito ad attirare la mia attenzione. L’altrimenti perfetta composizione è rovinata da quello spazio vuoto. Sembra che si sia creata una lacuna, che qualcuno sia stato grattato via lasciando solo una striscia di terra scolorita. Perfino i toni seppia in quella sezione dell’immagine sono stranamente tenui. Troppa luce nell’ombra.
Anche l’inquadratura è bizzarra. I due uomini dovrebbero essere al centro del quadro, invece sono spostati a sinistra. Manca di equilibrio. Ma se ci fosse una terza persona, sarebbe una composizione perfetta. C’è una breccia al posto di chi non è nella fotografia. L’ombra del fotografo, con l’elmetto militare, si allunga sul terreno fra i due uomini. C’è qualcosa di strano anche in quell’ombra. Come entrambi abbiamo notato, risulta troppo nitida, troppo cesellata, troppo perfetta. Sembra che il sole, proprio in quel punto, si sia attenuato. Ho l’impressione che l’ombra abbia un’angolazione diversa dalle ombre dietro i due uomini. Qualcosa non va.
Voglio raccontarti di al-Lydd, 75 chilometri da Gerusalemme, dove un uomo dalla voce pacata di nome Omar mi ha guidata verso un parcheggio al centro della città. Indicando il terreno, mi ha informata che ci trovavamo sul luogo di un massacro del 1948. Centinaia di palestinesi, tra cui donne e bambini, erano stati uccisi dagli israeliani. Non era un fatto contestato, mi disse Omar, l’aveva riconosciuto anche il governo israeliano. Ciò che voleva farmi capire era che quel parcheggio non era solo un parcheggio. Era un luogo di violenta oppressione. Un luogo di dolore e lutto, e che ciò che giaceva sotto l’asfalto era un’altra città che conteneva altre storie che aspettavano di essere ascoltate.
Siamo rimasti lì, in silenzio, e io pensavo a cosa ti avrei detto più tardi. Su quella brutta striscia di terra asfaltata, l’abisso tra quanto vedevo e quanto in realtà stavo guardando era palpabile. Non era la storia che veniva negata, ti avrei detto, ma la memoria.
Simonide disse che per consolidare un dettaglio nella memoria, si dovrebbe immaginare di collocare il fatto in una stanza di un palazzo immaginario. Un palazzo in grado di espandersi per contenere nuove informazioni, nuove stanze, tutte quelle necessarie. Per ricordare qualcosa, non c’era che da rammentare in quale stanza era immagazzinato un certo dettaglio e tirarlo fuori. Era un principio organizzativo efficiente, un metodo preciso ed efficace per ricordare. Ora sto pensando alle pitture e le incisioni rupestri, quelle meravigliose, fragili figure di umani e animali: penso alla conoscenza dipinta e incisa nella pietra, i parametri del mondo che si consolidano in quelle rappresentazioni. Questo è ciò che so. Questo è ciò che vedo. Questo è ciò che faccio. Accantonata ogni domanda. Ogni incertezza sospesa.
La più antica biblioteca del mondo fu costruita a Ninive nel 7° secolo a.C., le sue 30mila tavolette cuneiformi suddivise per argomento. Racconti e cronache di antiche tradizioni che il canto e la poesia hanno tramandato. Dettagli modellati intorno al metro e la melodia. Una volta mi hai detto che ricordiamo il mondo grazie ai dettagli che riusciamo a comprendere e organizzare. Ma ora voglio chiederti: cosa ne fai dei dettagli che non seguono una logica coerente? Che mutano costantemente significato e forma? Da quando ho cominciato a collezionare fotografie, ho anche viaggiato in lungo e in largo e spesso sorge la seguente domanda: Quale accoglienza riserviamo a ciò che indugia ai margini di una conoscenza sancita dallo stato? Cosa ne facciamo del nostro disagio? Perché è più facile adeguarsi, piegarsi alla seducente volontà del potere. Il potere è rassicurante. Persuasivo. Molto più facile immaginare un parcheggio solo come un posto fatto per mettere la tua auto, fingere che non significhi nulla di più, che sia esclusivamente ciò che dev’essere.
Lascia che torni a quella foto. Io non penso, mentre continuo a ragionarci, di averne memoria. Ho un ricordo di quando l’ho trovata, del momento in cui l’ho scoperta. Ho un ricordo delle parti che compongono il tutto. Non credo di capire cos’altro cerca di dirmi, ma di una cosa sono certa: non è solo il ritratto di due uomini. Al pari del parcheggio, è anche qualcos’altro. Tu e io abbiamo discusso di come possa funzionare la manipolazione fotografica. Forse l’uso di una doppia esposizione per realizzare l’immagine di un istante che non è mai esistito. Ma perché? Mi hai chiesto di recente. Perché prendersi la briga di farlo? Perché, te lo ripeto, ricordiamo ciò che vediamo, anche se ciò che vediamo non è del tutto vero.
Le fotografie possono rappresentare e distorcere, cancellare ed evidenziare. Ciò che quei due italiani portarono a casa con loro, insieme all’equipaggiamento militare e fotografico e i souvenir del periodo in Africa, erano foto che gli permettevano di rimodellare se stessi in qualcos’altro, qualcosa di nuovo: eroico, audace, onorevole o forse perfino allegramente crudele. Le loro foto documentavano una storia particolare e grattavano via il resto. E a poco a poco quelle narrazioni, abbellite e alterate, censurate o ingigantite, assumevano valore di fatti nella loro ripetizione. Quelle storie di guerra si trasferivano nel regno della memoria, con l’aiuto di un fotografo. Se vuoi portare a casa una certa versione di te, prima fai la foto, poi eventualmente la manipoli, infine racconti la storia.
Ciò che intendo dire è questo: la fotografia che ti ho descritto in realtà non è la foto di un africano in piedi accanto a un italiano. Nessuna foto scattata in territori contesi da un membro delle forze coloniali italiane riguarda gli etiopi, eritrei, somali o libici che vi sono inquadrati. Certo, l’obiettivo puntava su uomini e donne africani, ma la narrazione – e l’occhio – era sempre in funzione degli italiani. Ogni foto scattata in Africa in epoca coloniale era in sostanza un autoritratto dell’occupante.
La memoria del mondo. Ma ti chiedo: Il mondo ha memoria? E in tal caso, chi può rivendicarla come propria? Cosa possiamo fare tutti noi altri per far risaltare quell’incongruo spazio vuoto che sta a lato del potere e chiede uno sguardo ravvicinato? È più facile accettare un dettaglio ben confezionato, adatto a una stanza organizzata in un palazzo organizzato. Ma accanto a quelle narrazioni costruite ce n’è un’altra, della misura di un essere umano, di molti, che mostra un segmento di terra dove non batte il sole. Chi osa guardare?
Ciò che ti sto scrivendo oggi è parte di una questione più ampia su cui continuo a riflettere, relativa alla differenza tra vedere e guardare, fra commemorare e ricordare, fra storia e memoria. Per anni, ho usato la fotografia per porre domande sulla responsabilità dello scrittore e della letteratura nel far conoscere un’assenza, nel rendere visibili le cancellazioni. Come possono le parole aiutarci a vedere? Come si può andare oltre ciò con cui siamo a nostro agio, avvicinarci a ciò che è vero? Perché se indubbiamente esiste una memoria del mondo, esiste anche un altro paesaggio di cose che non si lasciano dimenticare. Proviamo a guardarlo insieme.
©️2023 Maaza Mengiste.
Traduzione di Anna Nadotti