Nell’ultimo romanzo, Le dedico il mio silenzio (Einaudi), di fronte all’incredibile talento di un musicista, l’osservatore pensa: «No, non era semplicemente la destrezza con cui le dita del ragazzo di Chiclayo tiravano fuori note che sembravano nuove. Era qualcosa di più. Era sapienza, concentrazione, abilità estrema, miracolo». Non sarebbe enfatico riconoscere «sapienza, concentrazione, abilità estrema, miracolo» al ponderoso lavoro letterario di Mario Vargas Llosa, il grande sudamericano-europeo, morto a 89 anni il 13 aprile.
Natali peruviani, genealogia letteraria radicata nel Vecchio continente. Sulla copertina della prima edizione italiana di Avventure della ragazza cattiva, si vedono le mani dello scrittore all’opera con carta e penna e sullo sfondo Notre-Dame. Parigi, come per la “generazione perduta”, è stato il suo luogo d’elezione. Considerava Sartre il suo maestro e aveva in animo di scrivere un saggio su di lui («Sarà l’ultima cosa che scriverò), ma il grande parente letterario ha i piedi piantati nel secolo decimonono. Gustave Flaubert, cui dedicò uno splendido affondo da iperlettore, L’orgia perpetua (recentemente riedito in italiano da Settecolori). Riferendosi a Madame Bovary, lo indica come il romanzo che gli ha cambiato la vita. Flaubert – spiegava – «mi ha aiutato a scoprire che tipo di scrittore aspirassi a diventare».
Verrebbe da dire che è diventato un massimalista ironico, Vargas Llosa: la sua narrativa tiene insieme finezza di psicologista, critica sociale (esordì nel 1963, nemmeno trentenne, con La città e i cani, sull’ombra della violenza in un collegio militare di Lima), desiderio. E una capacità non comune di animare le voci dei suoi personaggi: l’imponente Conversazione nella Cattedrale è tutto giocato su un corpo a corpo dialettico in un bar, e diventa filosofia, elegia, inchiesta politica. Fra decine di romanzi scritti in sessant’anni di dedizione alla letteratura, era quello che l’autore avrebbe salvato dalle fiamme; ma è difficile stabilire un primato.
Si è mosso fra il grande affresco storico (La Casa Verde, La guerra della fine del mondo, La festa del Caprone, Il sogno del Celta) con attenzione ai nodi e ai traumi della storia sudamericana (che forniscono «materiale turbolento, problematico e terribile») e storie più intime, cariche di un erotismo sofisticato (La zia Julia e lo scribacchino, Elogio della matrigna) che diventa corrente narrativa. Il dono della letteratura come “realtà aumentata”: non rende più felici ma più sensibili. Vale la pena? Sì, tanto più se poi si finisce per diventare scrittori: «Io sono la letteratura che ho prodotto», ammetteva candidamente don Mario, definendo il suo mestiere «servitù e delizia».
C’è piacere e c’è fatica, ma soprattutto la coscienza di non riuscire mai a centrare i propri obiettivi: «Qualsiasi opera, anche un capolavoro, è sempre una sconfitta nell’intimo di uno scrittore, un prodotto molto al di sotto del culmine che si era proposto di toccare». Professione di sincerità che non toglie un grammo alla grandezza di certi esiti: compresi quelli più tardi, perfino senili. Sorprendenti: come la vitalità e la freschezza con cui, in Avventure della ragazza cattiva, racconta l’illusione di Ricardito: crede di vivere una luna di miele con la niña mala, la ragazza cilena – sfuggente e maliziosa – di cui è innamorato.
«In quei giorni chiunque ci avrebbe presi per amanti, perché ci tenevamo per mano tutto il tempo e io la baciavo e l’accarezzavo con qualsiasi pretesto». Lei ogni tanto prende l’iniziativa di pettinarlo o spettinarlo, di passargli un dito sottile lungo il naso o sulla bocca, «una carezza che rassomigliava a quella di una padrona affettuosa al suo cagnolino». Finché desideri sei vivo, sembra dire senza dirlo Vargas Llosa, troneggiante, energico, pronto a sgolarsi nelle piazze fino all’altro ieri, o a candidarsi in Perù, a giocare con la parte dell’anti-progressista o del moralista, dell’eterno antagonista di Gabriel García Márquez, del vecchio liberale disorientato dalla volgarità della società dello spettacolo.