Cultura
18 settembre, 2025Siamo perennemente connessi, visibili. Ma senza empatia con gli altri. Il vero isolamento, sempre più raro, diventa trasgressivo. Una formadi resistenza da rivendicare
Tra i tanti effetti collaterali della rivoluzione digitale ce n’è uno decisamente sottovalutato: la dissoluzione dell’Io nella molteplicità di vuote rappresentazioni. Viviamo in uno stato di esposizione digitale permanente. Ogni gesto è registrato, ogni volto replicato in pixel, ogni intenzione catturata e algoritmicamente elaborata. Eppure, questa sovraesposizione non genera vicinanza. La solitudine, che i guru della tecnologia digitale avevano dato per estinta, si è trasformata, ha mutato pelle. Non è più assenza dell’altro, ma impossibilità di sottrarsi al suo sguardo distratto e onnipresente. È una solitudine rumorosa, satura di segnali che comunicano senza dire nulla. Non è vera solitudine, ma una sua caricatura: disincarnata, irreale, sterile come ogni espressione del virtuale tecnologico. Una solitudine digitale che non chiede ascolto, non genera attese e che ha dissolto la sacralità della sfera personale, quella dimensione intima e preziosa che, secondo Kierkegaard, custodisce i pensieri più profondi e i silenzi non condivisi, quegli spazi di introspezione e raccoglimento che restano esclusivamente nostri, inaccessibili agli sguardi esterni.
C’è chi leggerà in questa riflessione una nostalgia romantica dei tempi analogici. Al contrario, è una diagnosi cruda degli effetti di una sovrabbondanza digitale. Siamo passati dall’ essere “individui in relazione di senso” all’essere “individui in relazione esibita”. Ci mostriamo senza pudore, misurando il nostro grado di esistenza in base ai like e ai follower, mentre smarriamo ciò che rende l’esistenza degna di essere vissuta: la possibilità di un altrove interiore, invisibile, sfumato, opaco. L’ideologia dell’accessibilità totale – figlia del capitalismo della sorveglianza ormai regimizzato – ci ha reso sempre reperibili, leggibili, tracciabili. E ha svuotato di significato l’incontro autentico. Le connessioni si sono moltiplicate, ma la solitudine resta. Non per mancanza di voci ma per un sovraccarico di accessi digitali che ci isola nel momento stesso in cui ci espone. In questo scenario, anche l’irrevocabile – la sostanza profonda dei sentimenti fondativi dell’esperienza umana come l’amore e l’amicizia – è stato espulso. Ogni parola, ogni intenzione, ogni reazione è impermanente ed è revocabile con un clic. Ecco perché la ricerca di una solitudine autentica è oggi una scelta etica, un gesto sovversivo: significa custodire il segreto del proprio io individuale che guida il comportamento e l’esperienza personale. Non è rifiuto dell’altro, ma un’ultima zona di resistenza ontologica, dove riscoprire l’irriducibilità dell’essere e la complessità inattingibile della vita. La solitudine come misura ristabilita dell’umano, confine certo tra essere ed apparire, spazio verticale di scavo interiore, come sospensione fertile dell’essere che cerca se stesso per evolversi oltre il limite della materialità e per accogliere il Tu sei attraverso la conferma dell’Io sono. Come scriveva Rainer Maria Rilke, la solitudine non è mancanza d’amore, ma il modo in cui l’anima si conosce e si crea. E non è neppure, per dirla con Emil Cioran, un vuoto da colmare, ma un abisso che si apre nella profondità dell’anima. E se un tempo la solitudine era scelta da eremiti, artisti, pensatori come strumento privilegiato di ricerca interiore, oggi l’interiorità non è solo trascurata, è sospettata. Chi si sottrae alla visibilità rischia di essere percepito come marginale, non rilevante, quasi inesistente. Siamo stati educati a credere che solo ciò che è mostrato esiste davvero. Eppure, ogni esperienza profonda, l’amore, il lutto, la separazione stessa, richiede raccoglimento, lentezza, ascolto. Condizioni incompatibili con il ritmo frenetico del digitale, dove ogni contenuto è destinato a essere superato, aggiornato, dimenticato. Ma non ogni isolamento è “malato”, anzi può essere occasione di respiro, di ricomposizione delle fratture interiori fuori dal clamore della iperconnessione che ci rende trasparenti e intimamente violabili.
Rivendicare il diritto di essere senza apparire, di vivere un tempo ozioso che non performa ad ogni costo, è forse il compito più urgente. Se nella dimensione digitale il corpo è ridotto a immagine, ad un avatar insenziente, la solitudine autentica è ritorno al sé corporeo, al tempo biologico che, nell’ascolto delle nostre fragilità, si oppone alla tirannia dell’istantaneità digitale e restituisce verità all’essere qui e ora. In un’epoca in cui tutto è pensato per essere convertito in contenuto e condiviso in rete, rivendicare uno spazio inviolabile di silenzio e non esposizione significa anche restituire valore all’intimità. La solitudine scelta consapevolmente non è una forma di fuga, ma un atto di responsabilità verso se stessi. È un terreno fertile dove coltivare ciò che non appartiene alla logica del profitto e della prestazione: la tenerezza, la fragilità, la contemplazione. Quando Sant’Agostino, nelle Confessioni, scrive «intimior intimo meo, et superior summo meo», intende dire che la nostra verità più autentica si cela dentro di noi, nell’intimità più nascosta, in quel luogo segreto e intangibile, inaccessibile alla pura oggettività, dove ragione e sentimento si fondono. È lì, nell’eco silenziosa di quel rifugio interiore, che si intrecciano memoria e speranza, giudizio e amore. Nessun algoritmo, per quanto complesso, nessuna tecnologia per quanto sofisticata potrà mai penetrare quell’abisso sacro, quel regno ineffabile dove l’anima si interroga, sceglie e si apre all’Assoluto.

LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Heil Putin - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 19 settembre, è disponibile in edicola e in app