All’inizio ci sono delle mucche. Passano davanti alla telecamera facendo lo slalom tra le persone. Sembra un’atmosfera allegra. E infatti ecco un soldato ridere. Appartiene, come l’uomo che sta riprendendo il tutto, alla Border Security Force indiana (Bsf), le guardie che controllano la frontiera: in questo caso quella con il Bangladesh. L’uomo in divisa sghignazza, mentre lega le mani di un ragazzo bangladese, vestito con una maglietta rosa e dei pantaloncini azzurri. Succede tutto rapidamente. Il ragazzo è gettato a terra, trascinato e picchiato. Inizialmente sono solo schiaffi e calci. Ma poi viene spogliato di tutto e preso a bastonate. Urla di dolore, mentre i soldati discutono allegramente se dargli del tè, dove menarlo, se tagliargli un orecchio. Una guardia chiede al “regista” se lo si veda bene nel filmato. Poi posa un piede sul corpo del ragazzo, come un cacciatore con la sua preda.
Il video è stato registrato nel dicembre del 2010 a Murshidabad, nel Bengala Occidentale. Lo si trova ancora su YouTube, dove per umiliare ancora più il ragazzo è stato originariamente postato dalla guardia indiana che lo ha girato (per trovarlo sul Web basta cercare “Bsf torturing a poor bangladeshi”).
[[ge:rep-locali:espresso:285130965]]Per il clamore che provocò è diventato uno dei simboli delle violenze che si verificano sul confine tra India e Bangladesh, una frontiera contraddistinta da un mostro poco noto: un gigantesco muro. Si tratta di una barriera di filo spinato alta due metri e mezzo, controllata da guardie indiane particolarmente severe e lunga più di tremila chilometri: un po’ come dire dalla Sicilia alla Svezia.
Ideata dall’India nel 1993, eretta in gran parte prima del 2007, è stata costruita per tre ragioni principali: fermare il flusso di immigrati irregolari provenienti dal Bangladesh, lottare contro traffici illegali di ogni tipo e contro le supposte infiltrazioni terroriste.
Il ragazzo denudato e umiliato in quel video non era né un terrorista né un clandestino, ma un semplice aiutante di un gruppo di contrabbandieri. Il suo nome è Habibur Rahman, oggi ha 24 anni, e vive nel villaggio Roshia, nello Satkhira, una regione del sud del Bangladesh, affacciata sul golfo del Bengala e confinante appunto con l’India. Lo si vede anche in questa pagina, ritratto dal fotografo belga Gaël Turine, al quale Habibur ha raccontato: «La Bsf mi ha rovinato la vita. A causa loro non potrò mai sposarmi, perché nessun padre permetterà a sua figlia di prendermi come marito».
Habibur vendeva giocattoli di plastica per strada, ma guadagnava una miseria. Allora decise di provare con il traffico di mucche oltre il confine. Un gruppo di contrabbandieri, quella notte, lo mise alla prova. Habibur venne però intercettato dalla Bsf indiana, si rifiutò di pagare loro un “lasciapassare”, e così venne arrestato. Lo portarono al compound, dove subì quelle violenze. Oggi Habibur va a pesca con suo padre, ma non può più fare lavori stancanti. Inoltre si rifiuta di andare in città, perché lì tutti hanno visto il video e si vergogna. Gli otto soldati indiani che lo torturarono, invece, sono stati trasferiti, ma non hanno perso il lavoro, anche perché il Bangladesh non ha fatto molte pressioni. Spiega Habibur: «Non avrò mai giustizia, perché il nostro governo non vuole creare problemi all’India».
La sua storia non è affatto l’unica. La vicenda più nota e raccapricciante, ancor più di quella di Habibur, è sicuramente il caso Felani. Era una ragazza bangladese di 15 anni, Felani Khatun, e viveva illegalmente in India con i genitori. Nel gennaio del 2011 venne uccisa dai proiettili della Bsf, mentre insieme a suo padre stava ritornando in Bangladesh, nel suo villaggio d’origine, per sposarsi. Le immagini fecero il giro del mondo: prima quelle del suo corpo appeso al filo spinato, a cui era rimasta incastrata mentre provava a oltrepassare la recinzione con una scala e da cui chiese acqua per trenta minuti prima di morire dissanguata; e poi quelle in cui la si vede mentre viene portata via come carne da macello, agganciata a un bastone, a testa in giù, con mani e piedi legati. Anche in questo caso i responsabili indiani sono rimasti impuniti, come ha confermato un tribunale nel settembre scorso.
Molti casi di omicidi e violenze commessi dalle guardie di frontiera indiane ai danni degli immigrati del Bangladesh sono stati documentati nel 2010 da un dossier di Human Rights Watch e della ong Odhikar, in cui si riportava che 315 bangladesi erano stati uccisi dalla Bsf dal 2007, e in un decennio ben 930. Quel dossier fu in grado di attirare sulla questione l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale, ma da allora non se ne è più sentito parlare.
Eppure le violenze e gli omicidi proseguono, come ci spiega via mail dal Bengala Occidentale Kirity Roy, segretario della ong indiana Masum, che ci racconta ad esempio la storia di un 26enne bangladese morto a gennaio, in circostanze da chiarire, dopo essere stato arrestato dalle guardie indiane per aver provato a emigrare illegalmente: «Uccisioni, torture e stupri vengono commessi dalla Bsf, ma anche dalla polizia o dalle guardie carcerarie, soprattutto quelle che si occupano dei minori».
I drammi che accompagnano la storia del muro tra India e Bangladesh parlano due lingue. La prima è locale. Raccontano infatti quale tasso di violenza domini in quell’area, che siano gli abusi sui più deboli (come gli stupri in India di cui si è tanto parlato nell’ultimo anno) oppure i conflitti etnici, religiosi e nazionali che dividono da più di sessanta anni prima l’India e il Pakistan, e poi entrambi i Paesi dal Bangladesh, che nel 1971 ha ottenuto l’indipendenza dal Pakistan al termine della guerra di liberazione.
L’altra lingua è invece universale. Tralasciando lo speciale genere di pornografia che producono i soldati quando vengono lasciati liberi di reprimere (le guardie americane di Abu Ghraib come quelle indiane della Bsf), quei drammi raccontano infatti anche la paura dell’altro, il bisogno di separare, distinguere tra “noi” e “voi”, evitare la contaminazione.
Nell’epoca della globalizzazione, che tutto mescola nel bene e nel male, è sempre più frequente il ricorso a giganteschi muri di separazione tra uno Stato e l’altro, a causa dei quali ogni anno rimangono ferite o uccise migliaia di persone. Secondo Reece Jones, geografo dell’Università delle Hawaii, quasi 30 nuove barriere sono state erette dal 1998. Le più note dividono oggi Israele dalla Cisgiordania, gli Stati Uniti dal Messico, le enclave spagnole di Ceuta e Melilla dal Marocco, la Grecia dalla Turchia, la Corea del Sud da quella del Nord, la comunità turca da quella greca sull’isola di Cipro.
Quella che separa India e Bangladesh è una delle più complesse, oltre che la più lunga al mondo di questo tipo. I due Paesi condividono una frontiera di circa 4 mila chilometri, che nel 1947 - quando il Bangladesh era ancora il Pakistan Orientale - venne disegnata dai britannici senza una logica geografica o etnica, visto che le due popolazioni al confine avevano e hanno una grande vicinanza culturale, linguistica e etnica: fino alla costruzione del muro, migliaia di bangladesi attraversavano regolarmente la frontiera per motivi di lavoro o per far visita ad amici e familiari.
Difficile che nel futuro prossimo possa cambiare qualcosa. Se da un lato il governo del Bangladesh, Paese povero e sovrappopolato, si rifiuta di riaccogliere gli emigrati espulsi da Nuova Delhi, a maggio l’India ha eletto come nuovo primo ministro Narendra Modi, un nazionalista indù che in campagna elettorale aveva promesso di deportare gli immigrati irregolari provenienti dal musulmano Bangladesh (facendo però un’eccezione per gli immigrati indù) e che il 31 luglio ha deciso che ogni Stato indiano deve costruire dei centri di detenzione.
Nonostante ciò, oggi in tanti continuano a rischiare la vita per oltrepassare quella barriera. Sono spinti dalla povertà. Ma magari è anche il loro modo di combattere quel male che uno psichiatra della Germania dell’Est ravvisò in quanti vivevano all’ombra della barriera più famosa del Novecento: la “Mauerkrankheit”, la malattia del Mur.