Confindustria e sindacati hanno svolto un ruolo rilevante negli anni passati. Hanno assicurato la disinflazione dell'economia italiana (con il Patto sociale del 1993 che eliminò la scala mobile) e hanno permesso l'ingresso dell'Italia nell'euro. Senza la valuta europea oggi saremmo stati travolti dalla crisi finanziaria. Hanno vinto una guerra, eppure stanno ancora combattendo vecchie battaglie sulle relazioni industriali. La presidenza di Confindustria di Giorgio Squinzi può consentire di aprire una nuova fase.
Le associazioni d'interesse, come le parti sociali, devono essere "associazioni suicide", ossia capaci di esaurirsi quando i vecchi obiettivi sono raggiunti e pronte a rinascere su basi nuove. Non devono continuare ad agitare i vecchi problemi solo per giustificare la loro esistenza. Le relazioni industriali sono state la principale missione fino a quando l'Italia è entrata nell'euro. Prima di allora la contrattazione tra sindacati e Confindustria aveva una valenza politica nazionale perché determinava il costo del lavoro (quindi anche il tasso d'inflazione) e il cambio della lira, con riflessi sulla finanza pubblica e su tutti gli italiani. Con l'ingresso nell'euro, inflazione e cambio non competono più al nostro Paese, ma sono determinati dalla Bce. Per questo la contrattazione salariale non ha più valenza di politica economica pur se resta importante per le singole imprese e per i singoli lavoratori. Da qui anche la tendenza a spostarsi sulla contrattazione aziendale.
Con il venir meno del ruolo delle parti sociali nella politica antinflazionistica si è ridotto anche il loro spazio di visibilità e di pressione sulla politica. Come possono recuperare un nuovo ruolo senza essere costretti a litigare sulle relazioni industriali? La via è quella di dedicare la propria attività a costruire un ambiente favorevole alla crescita e alla giustizia sociale e di preparare i propri iscritti a cogliere le opportunità disponibili.
Il primo obiettivo si persegue con le riforme dei nostri mercati affinché essi siano più efficienti e più giusti: ossia quello che sta cercando di fare il governo Monti. Le parti sociali possono contribuire se sapranno superare gli interessi corporativi che allignano al loro interno e che frenano le riforme (vedere il caso del mercato del lavoro). Il secondo obiettivo è invece proprio di ciascuna parte sociale. Fin qui esse hanno perseguito essenzialmente gli interessi degli iscritti nei confronti delle controparti e dello Stato. Un compito legittimo ma non più sufficiente. Le parti sociali devono contribuire a far crescere i propri iscritti perché siano capaci di affrontare le sfide del futuro.
I lavoratori hanno bisogno di tutele, ma anche e soprattutto di formazione capace di far cogliere loro tutte le opportunità che si presenteranno. I sindacati dovrebbero impegnarsi maggiormente nel favorire processi di formazione e formule di accompagnamento dei lavoratori verso nuove mansioni e nuove professionalità, senza pretendere di essere loro a gestire la formazione.
Le imprese devono anch'esse evolvere. La struttura familiare è una caratteristica positiva delle nostre imprese, ma essa deve essere condita anche di contenuti manageriali, affinché non diventi un punto di debolezza. A questo fine, l'inserimento dei familiari in azienda deve avvenire con criteri obiettivi per non demoralizzare le strutture. I passaggi generazionali non possono essere affidati al caso: in occasione delle successioni la famiglia deve diventare sempre più azionista e sempre meno gestore dell'azienda. Vanno separati gli interessi della famiglia da quelli dell'azienda e va tutelato il capitale dell'azienda (vedere i casi Tanzi-Parmalat e Ligresti-Fonsai, emblemi di pratiche diffuse). Va avvicinata l'azienda al mondo della ricerca.
Questi e altri obiettivi saranno nel futuro altrettanto importanti per le parti sociali, quanto lo è stato nel passato l'investimento nelle relazioni industriali. Occorre allora che esse si reinventino una missione per non rimanere prigioniere di vecchi obiettivi ormai conquistati e superati.
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