Si chiama Kers, conosciuto per le sue dimensioni come “valigetta del Kers”, l’oggetto misterioso della Ferrari di Formula Uno. È uno degli ingranaggi più innovativi dei bolidi del Cavallino, una specie di propulsore che recupera l’energia dispersa durante le frenate per dare più potenza quando serve.
Lo fabbricano trenta operai della Magneti Marelli di Corbetta, nel milanese. Quindici di loro sono metalmeccanici assunti a tempo indeterminato, l’altra metà precari disposti a tutto pur di essere stabilizzati. Ma qui, da quattro anni, non si investono risorse su nessuno. L’azienda, che fa parte del gruppo Fiat, va bene. Da tempo non c’è più cassa integrazione, il portafoglio ordini è gonfio e ci si attende un buon bilancio 2013.
Per far fronte alla crescita delle commesse si punta sull’aumento della produttività con i tre turni, il lavoro nel week end e il guru giapponese Hajime Yamashina - quello del metodo Toyota - che gira fra gli stabilimenti suggerendo dritte per lavorare meglio e più in fretta. Ai picchi produttivi si risponde con gli interinali: di nuovi contratti a tempo indeterminato, neanche l’ombra. Conferma Mirco Rota, della Fiom: «Come tante altre industrie, la Magneti Marelli ha ingranato la quinta, cresce nei volumi ma l’occupazione resta al palo». Perché un dipendente è come un diamante: costa ed è per sempre.
Da settembre le statistiche dei maggiori centri studi hanno smesso di somigliare a bollettini di guerra e prevedono che l’Italia crescerà di un timido 0,7 per cento nel 2014, grazie all’export. Ma c’è poco da festeggiare. In sei anni il Prodotto interno lordo (Pil) è sceso di nove punti percentuali e i disoccupati sono raddoppiati, 3,2 milioni.
Per giunta la Confindustria parla di una caduta strutturale dell’occupazione, cioè di una tendenza difficile da invertire. Al punto che, nel 2013, la Cgil stima in oltre 515mila i lavoratori relegati in cassa integrazione a zero ore. Per toccare con mano la crudezza di una ripresa senza occupazione basta un tour nelle fabbriche delle regioni italiane dove, già oggi, esportazioni e fatturati sono tornati a crescere e nel 2014 lo faranno più che altrove: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna. Alla Carraro Drive Tech di Capodarsego, nel padovano, dopo una faticosa trattativa sindacati e manager hanno firmato un accordo: 40 milioni di investimenti in cambio del ciclo continuo per far andare gli impianti giorno e notte. Così si ottiene maggiore produttività, cioè più macchine agricole prodotte (di questo si occupa la Carraro) a parità di costi. La società assumerà cento persone, ma ci vorrà tempo, e intanto i 900 dipendenti non lesinano sugli straordinari.
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Per chi cerca lavoro, dunque, le prospettive restano grigie. «Se il ritmo di crescita del Pil arrivasse all’1,5 per cento annuo - valore che abbiamo sfiorato solo nel periodo di relativo splendore fra il 2003 e il 2007 - il reddito pro capite delle famiglie tornerà come quello precrisi soltanto nel 2026», analizza Sergio De Nardis, capo economista di Nomisma. Al contrario, potremmo essere fuori dal guado nel 2020, se il governo investisse 30 miliardi l’anno, metà per ridurre le tasse alle imprese, l’altra per tirare fuori dal baratro chi è caduto in povertà. Purtroppo, però, fra spending review e altri tagli, lo staff economico del nuovo premier Matteo Renzi sembra che quest’anno non possa racimolare più di 10 miliardi: troppo pochi per soffiare con forza sul fuocherello della ripresa. Ecco perché la disoccupazione, che a livello nazionale tocca il record del 12,9 per cento, non si ferma neppure nelle regioni locomotiva.
Il capo della Telwin di Villaverla, Vicenza, leader delle saldature, 70 milioni di fatturato e 350 dipendenti, per uscire dalle turbolenze della crisi ha tolto le commesse agli artigiani esterni e attivato un contratto di solidarietà per ridurre l’orario ai dipendenti: «Il prezzo da pagare in termini di occupazione è alto, ma l’azienda si è mantenuta profittevole», dice Raffaele Consiglio, della Fim-Cisl. Se Telwin non avesse fatto così, avrebbe dovuto indebitarsi e chissà come starebbe oggi; ma grazie alla flessibilità ha abbassato i costi e intercettato nuovi mercati. Quindi, l’azienda cresce nei volumi, senza però assumere. In cinque anni in Veneto sono saltati centomila posti, due terzi nel manifatturiero, dagli elettrodomestici Electrolux ai cantieri navali Fincantieri, dai pullover Benetton al vetro soffiato La Murrina, dagli occhiali Safilo alle moto Aprilia. Numeri neri: solo per ricollocare i cassintegrati servirebbe una nuova fabbrica da 35 mila operai; una seconda da 100 mila posti sarebbe necessaria per piazzare le tute blu disoccupate e una terza altrettanto grande servirebbe per assorbire i giovani che si affacciano al mondo del lavoro.
«Più produzione e più Pil non significano più occupazione. Di mezzo ci sono l’automazione industriale, che riduce la necessità di lavoratori, e le nuove forme di organizzazione, dalle quali però non possiamo prescindere per non perdere competitività. Bisogna far crescere i settori ad alta occupazione, come il turismo», dice una preoccupata Franca Porto, segretario della Fim veneta, che nessun economista oggi riuscirebbe a rassicurare. E anche Francesco Daveri, professore di Politica Economica all’Università di Parma, sparge cautela. È vero che quando finisce una recessione il lavoro arriva sempre tardi: «Ma stavolta la ripresa ha luogo in un contesto più globale. Le grandi aziende, come Fiat e Barilla, per rimettere in ordine i conti, hanno fatto acquisizioni all’estero.
Quindi il moltiplicatore dei posti di lavoro è meno garantito». Anche negli Stati Uniti, dove l’economia è ripartita, l’occupazione va al rallentatore. Chi ha studiato, conosce le lingue, viaggia e sa maneggiare l’economia e Internet, non ha grossi problemi. Ma gli operai restano parcheggiati, perché nel frattempo i datori di lavoro hanno spinto sull’automazione, la delocalizzazione o le strategie per migliorare la produttività. Come alla bergamasca Brembo, capofila di un settore auto che in Lombardia è tornato a viaggiare. O, ancora, alla Arag di Reggio Emilia, un’azienda che cresce del 15-20 per cento l’anno e fa computer di bordo. Lì di operai non ne cercano, sono sufficienti i 250 attuali, addestrati per rendere più pimpante la produzione. Il proprietario, Giovanni Montorsi, assumerebbe volentieri una decina di ingegneri ma fatica a trovarne di adatti.
Difficile per i giovani non farsi scoraggiare. Prendiamo il caso di Lactalis Galbani, di proprietà della famiglia francese Besnier, che in quindici anni si è mangiata la maggior parte dei formaggi lombardi (Invernizzi, Cademartori, Locatelli, Vallelata, più l’emiliana Parmalat). Il colosso è cresciuto del 18 per cento nel 2013. I formaggi vanno forte all’estero, meno in Italia, e così Lacatalis taglia i costi e chiude l’Invernizzi di Caravaggio (Bergamo), lo stabilimento dei formaggini “Susanna tutta panna”. Besnier trasferirà i 218 dipendenti a Pavia, mentre salteranno circa cento giovani precari. Anche nelle multinazionali, dunque, tira una brutta aria: nel giugno 2013 i manager del colosso chimico tedesco Henkel avevano dato un premio di produzione a tutti i 75 operai di Mezzago (Monza). Un paio di settimane dopo, hanno chiuso la fabbrica. «Per ridurre i costi i gruppi fanno costanti riorganizzazioni, anche se vanno bene», spiega Aldo Isella della Cisl, che ha firmato un accordo con l’Eni per prepensionare (via mobilità) mille colletti bianchi in cambio di cinquecento neo assunti.
Così, anche se gli indicatori della crescita migliorano, sono in molti a temere una falsa ripartenza. Dice Fabiano Schivardi, che insegna Economia alla Luiss: «Se entro l’estate la crescita si rafforzerà, ripartirà anche l’occupazione. Ma per ora nessuno si azzarda ad assumere, perché una gelata potrebbe cancellare i germogli d’inizio anno». L’atteggiamento dell’Unione Europea, pensa il professore, sarà determinante. Se alle imminenti elezioni europee vincerà la politica del rigore, allora la crescita si arresterà; se s’investirà per rilanciare i Paesi in difficoltà, allora l’Italia potrà guarire. «Abbiamo bisogno di stabilità e servono scelte condivise con l’Europa, come l’unione bancaria, utile per rianimare il credito all’industria», spiega Schivardi. Nel frattempo, per porre un freno alla disoccupazione, Renzi ha promesso di presentare il Jobs Act in Parlamento entro metà marzo: all’interno della riforma è prevista l’introduzione di un assegno universale per chi perde il lavoro (anche gli atipici) e un unico contratto a tutele progressive, in sostituzione della giungla dei 40 contratti attuali.
Un problema che il governo dovrà risolvere è recuperare l’enorme divario che si è creato fra salari e produttività. Questo rapporto in Germania è rimasto stabile, da noi i salari sono cresciuti mentre la produttività è calata. Uno scollamento che va ricucito tagliando le tasse sul lavoro. Come? «Chiedendo a Bruxelles di dirottare tutti i finanziamenti europei sulla riduzione del cuneo fiscale», suggerisce l’economista. Intanto le grandi aziende si portano avanti. Secondo Schivardi, alcune vertenze scottanti (come l’Electrolux), potrebbero nascondere il tentativo di abbattere la contrattazione nazionale, come ha fatto Fiat, puntando sulla contrattazione decentrata per scambiare la flessibilità con maggiori investimenti. Come è successo alla Ducati Moto di Bologna dove Luigi Torlai, direttore risorse umane, dopo quattro anni di trattativa ha convinto i sindacati a firmare un accordo per assumere a tempo indeterminato 30 persone con un part time verticale, che li terrà in azienda da gennaio a luglio. Una strategia che consente di coprire i picchi stagionali risparmiando sui costi di formazione del personale interinale e preparare il ricambio generazione tra gli operai. Trenta assunzioni part time su un organico di 980 persone sono poche. Ma per chi farà parte del gruppo, sarà come aver vinto un Gran Premio.