Matteo Renzi punta tutto sulla rinascita della manifattura. Ma non sarà facile, perché il nostro paese ha perso 6 dei 10 colossi che dominavano ?l’industria trent’anni fa. E il confronto con Germania e Francia è impietoso

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Matteo Renzi non è tipo da fossilizzarsi troppo. Lo scorso autunno la parola «declino» la usava spesso. «Se rinviamo le riforme ci condanniamo a un lento declino», ripeteva a chi lo criticava. Ora che il Jobs Act e gli incentivi per chi assume sono realtà, il premier ha alzato l’asticella. «I tedeschi? Li riprenderemo», ha detto in febbraio, visitando lo stabilimento Fiat di Mirafiori, dove Sergio Marchionne gli ha presentato i futuri modelli della casa automobilistica. Una battuta, certamente, ma anche un modo per mostrare fiducia nelle potenzialità delle riforme, battendo sul tasto della vocazione industriale dell’Italia: «Siamo un Paese manifatturiero, secondo solo alla Germania».

Si vedrà nel tempo quanto la ripresa annunciata riporterà in alto il sistema produttivo, e quanto saranno incisive le novità volute dal governo per chi assume e chi licenzia. Tuttavia, per comprendere com’è profondo il solco tra l’Italia attuale e quella del passato, basta guardare questa tabella

C'è la classifica dei primi dieci gruppi industriali italiani per giro d’affari, messi a confronto con quelli di trent’anni fa. Se le prime posizioni sono immutate, con Eni e Fiat che tra alti e bassi si confermano in vetta, dalla terza piazza in poi i cambiamenti sono enormi. Rispetto al 1984, quando il Renzi oggi quarantenne aveva già nove anni d’età, la storia ha inghiottito sei dei gruppi che dominavano la top ten: falliti, smembrati, commissariati, ridotti a poca cosa. Sono scomparse Montedison e Olivetti, così come non esistono più Sme e Snia Bpd, o sono diventate tutt’altro Italtel e l’industria siderurgica nazionale, all’epoca raccolta sotto la holding pubblica Finsider. Una fine che, di fatto, ha cancellato quasi 280 mila posti di lavoro diretti, per non parlare dell’indotto.

TROPPA FINANZA
Le ragioni dello sconquasso sono diverse. Prima di tutto, però, va fugata l’idea che una simile distruzione abbia generato un’energia creatrice capace di rimpiazzare i desaparecidos con nuovi protagonisti, paragonabili per dimensioni. Da questo punto di vista, infatti, la classifica 2013 non offre spunti d’ottimismo, per due diversi motivi. È vero che ci sono tre gruppi che possono vantare una leadership mondiale nei rispettivi settori: la Luxottica di Leonardo Del Vecchio, gigante degli occhiali; la Prysmian, numero uno dei cavi per l’energia e per la fibra ottica; e la Fincantieri, che svetta tra i costruttori di navi da crociera.

A ben vedere, però, due su tre di queste new entry non sono vere e proprio novità. Fincantieri resta un’azienda a controllo pubblico, così com’era trent’anni fa, che ha saputo affrontare parte dei problemi che l’affliggevano allora. E Prysmian era già in classifica nel 1984, come divisione cavi di Pirelli, quando l’azienda milanese era guidata da Leopoldo Pirelli e non aveva ancora ceduto una delle gambe su cui si reggeva, come ha dovuto fare nel 2005 ad opera di Marco Tronchetti Provera. Soprattutto, però, tranne Eni, Fiat e Finmeccanica, nessuna delle altre sette tra le prime dieci entrerebbe in classifica in Germania o in Francia.

Il secondo motivo di preoccupazione nasce proprio dal confronto con gli altri due grandi Paesi industriali d’Europa. Prima di fare qualche esempio, occorre però un’avvertenza. Il confronto presentato in queste pagine è basato sui dati raccolti e riclassificati da R&S, la società di Mediobanca nata nel 1970 per gli studi economici, e da sempre guidata da un comitato tecnico che ne assicura l’indipendenza e la qualità delle ricerche. I bilanci dei gruppi internazionali R&S ha iniziato a analizzarli più di recente.
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25/3/2015

Per Germania e Francia “l’Espresso” ha utilizzato così come punto di partenza il 1993: poco cambia però, perché a quel tempo Montedison, Olivetti, Snia e Italtel erano in piedi, mentre su Sme e Finsider il crepuscolo era appena iniziato. Ebbene, nessuna azienda tedesca o francese ha vissuto un tracollo paragonabile a quello italiano, anzi. Qualcuna è stata assorbita da una concorrente, o è entrata in una multinazionale.

La Rhone-Poulenc, sesta nel 1993 in Francia, è ora il gigante farmaceutico Sanofi-Aventis, quinto, con 30 mila dipendenti in più (sono 112 mila). Peugeot (da quarta a seconda) ha moltiplicato il giro d’affari due volte e mezza, salendo da 22 a 54 miliardi, mentre Renault (da seconda a quarta) l’ha visto crescere da 24 a 40. Da boom i numeri dei tedeschi. Volkswagen, che era terza, è ora prima con un fatturato quintuplicato (a 197 miliardi di euro) e dipendenti più che raddoppiati (a 572 mila). Bmw è salita dal decimo al terzo posto, anch’essa con ricavi pari a quasi 5 volte quelli del ‘93, mentre Siemens, big dell’elettromeccanica, e Bayer, colosso dell’aspirina, hanno perso qualche posizione, ma aumentato i ricavi due volte o giù di lì.

In Europa, dunque, il fenomeno dei “missing in action”, è italiano. Fulvio Coltorti, che ha diretto R&S per molti anni insegnando inoltre Economia Industriale all’Università di Firenze, in uno scritto di qualche tempo fa ha provato a ricostruirne le cause. Proprio all’inizio degli anni Ottanta i grandi gruppi stavano vivendo una specie di rinascita, e alla Piazza Affari le quotazioni correvano. Si generarono notevoli flussi di capitali, sfruttati però più per scopi finanziari che industriali: i Ferruzzi impiegarono 2.400 miliardi delle lire di allora per conquistare la Montedison; il gruppo De Benedetti - che controllava Olivetti - ne investì duemila per tentare senza successo la scalata alla finanziaria belga Sgb; la Pirelli perse 550 miliardi per prendersi la tedesca Continental, anch’essa senza riuscirci; gli Agnelli spesero un miliardo di dollari per ricomprarsi le quote Fiat vendute ai libici. «Questi esborsi, lungi dal rafforzare la dimensione industriale dei principali gruppi, ne provocarono al contrario un notevole indebolimento finanziario», scrive Coltorti.

A questi e altri errori successivi si sommarono debolezze diverse, fra cui vale la pena citare «l’incapacità di misurarsi sul mercato attraverso contenuti più innovativi dei prodotti», letale in un mondo globalizzato. Accanto alla crisi di molti gruppi privati, però, il confronto trentennale fa emergere il peso della scomparsa di molte manifatture un tempo di proprietà pubblica.

È vero che, oggi, Finmeccanica e Fincantieri sono lì a testimoniare che lo Stato, qualcosa da dire ce l’ha ancora. Ma è altrettanto vero che, per esempio, il gruppo attualmente guidato da Mauro Moretti è molto diverso rispetto a quello del 1984. Si è per dire liberata dell’Alfa Romeo, venduta alla Fiat due anni dopo. Così com’è costellata di stabilimenti chiusi uno dopo l’altro la vita della Finsider, i cui resti hanno trascinato le sue difficoltà fino ai giorni nostri, segnati dal commissariamento dell’Ilva di Taranto.

C’È L’ILVA DA SALVARE
Ne ricostruisce la storia Ruggero Ranieri in un capitolo del quinto volume della “Storia dell’Iri” di Laterza, curato da Franco Russolillo. Molti ricordano i debiti enormi, la liquidazione della holding, la fine di Bagnoli e lo smembramento di metà anni Novanta, con la cessione di Acciai Speciali Terni a Thyssen (ottava nella classifica tedesca, nel 1993 come oggi), di Dalmine alla Tenaris della famiglia Rocca e dell’Ilva ai Riva, che l’hanno trascinata sull’orlo del baratro. Meno conosciuta, però, è una delle tante colpe che la politica si porta dietro, e che Ranieri descrive. Perché c’è stato un momento, alla fine degli anni Ottanta, in cui l’Iri aveva deciso di affrontare i problemi cronici della Finsider, facendola ripartire da nuove basi e alleggerendola dei debiti. Il rilancio, però, fallì per la cattiva gestione delle scelte operative e per le intromissioni politiche, con una folle corsa a rilevare dai privati aziende decotte che, tra il 1989 e il 1991, costarono a un gruppo finanziariamente già debole ben 1.200 miliardi di lire.

Il risultato di questi errori è, appunto, la fine di molti colossi di trent’anni fa, che tra Alfasud, Italsider e altre aziende pubbliche è costata solo nel Mezzogiorno circa 70 mila posti in fabbrica, oltre a un importante patrimonio di competenze. Può essere questo, forse, un buon motivo per indurre il governo a metterci tutto l’impegno necessario per far ripartire almeno l’Ilva di Taranto, una volta affrontati i problemi ambientali. Perché un gruppo di quelle dimensioni, con oltre 16 mila addetti, non si crea in un attimo. Come mostra la taglia ancora ridotta delle molte multinazionali tascabili che negli ultimi trent’anni, mentre i giganti andavano estinguendosi, hanno fatto la fortuna d’Italia.

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