Non c’è stata la temuta fuga dei correntisti, ma la bufera di fine 2015 ?si è fatta sentire. Ecco gli istituti più colpiti. Da Popolare Vicenza a Mps

Aiuto, mi si sgonfia la banca. Tassi vantaggiosi per recuperare i clienti

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Il 29 febbraio arriva una volta ogni quattro anni. Lo annuncia sul suo sito la Nuova Banca Etruria. Non è una gran notizia, ma coi tempi che corrono fanno comodo anche le banalità da calendario. Avete presente i prezzi civetta dei supermercati, i supersconti per attirare nuovi clienti? Ebbene, lunedì scorso la banca di Arezzo garantiva per tre mesi un tasso annuo del 3 per cento a chi avesse aperto un conto nell’ultimo giorno di febbraio. È un’offerta chiaramente fuori mercato, se si pensa che gli interessi dei Bot con scadenza inferiore a sei mesi viaggiano da tempo sottozero.

Banca Etruria però, reduce da scandali e perdite, deve riconquistare la fiducia dei risparmiatori. E ci prova a suon di promozioni commerciali. Del resto lo stesso istituto propone ormai da mesi il “Conto Fico”. Sul nome si può discutere, ma il rendimento è a dir poco competitivo rispetto alla media del mercato: siamo al due per cento sulle somme vincolate per un anno. Un caso isolato? Non proprio. Popolare Vicenza e Veneto Banca, finite in guai grossi nei mesi scorsi, offrono fino al due per cento annuo anche ai clienti che depositano somme relativamente piccole, nell’ordine delle migliaia di euro. E Banca Marche, reduce come Banca Etruria dalla tempesta del bail in di novembre e dicembre, arriva al 2,15 per cento.

Numeri come questi confermano che alcuni istituti sono costretti a fare i salti mortali per difendere la posizione sul fronte della raccolta. In altre parole, ci sono banche disposte a offrire rendimenti molto più elevati del mercato pur di convincere la clientela ad aprire un conto. Oppure a non chiuderlo. Queste politiche commerciali, se si trascinano per molti mesi, lasciano il segno sul conto economico. Gli istituti in difficoltà pagano caro una materia prima, la liquidità, che sul mercato è disponibile a prezzi irrisori.

La piazza finanziaria globale, infatti, è letteralmente inondata da una gran quantità di denaro, soprattutto da quando la Bce ha cominciato a pompare dosi massicce di liquidità con l’obiettivo di stimolare la ripresa economica.

Di crescita fin qui se n’è vista ben poca, soprattutto dalle nostre parti. Peggio ancora: i dati più recenti, pubblicati lunedì 29 febbraio, confermano che in Italia i prezzi continuano a calare, cioè siamo ancora in deflazione, segno evidente che la crisi continua. In compenso, l’intervento di Francoforte ha avuto l’effetto di abbassare notevolmente il livello dei tassi, che sono andati addirittura sotto zero. Per le banche quindi è diventato molto conveniente finanziarsi sul mercato all’ingrosso dei titoli di Stato con operazioni di pronti contro termine. Questo, in estrema sintesi, è il copione che va in scena ormai da molti mesi.

Nell’ultimo trimestre del 2015 una serie di fatti nuovi ha cambiato lo scenario. Tutta questione di fiducia, potremmo dire semplificando al massimo. La fiducia dei risparmiatori nelle banche, che sul finire dell’anno scorso è precipitata ai minimi storici. Il tracollo, come noto, è stato innescato dal salvataggio, ordinato dal governo e gestito da Bankitalia, delle già citate Banca Etruria e Banca Marche, insieme a CariFerrara e CariChieti, tutte commissariate e da tempo sull’orlo dell’insolvenza. Migliaia di famiglie che avevano comprato obbligazioni subordinate emesse da questi istituti hanno visto azzerato il valore dei loro investimenti.

L’onda lunga della vicenda ha avuto effetti ancora più gravi nei comportamenti degli investitori. Per la prima volta è stato evidente a tutti che anche le banche, come qualunque altra azienda, possono fallire. E che i costi di questi crac, così come prevede la nuova normativa europea sul cosiddetto bail in, non verranno più scaricati sul bilancio pubblico, e quindi su tutti i cittadini. A pagare il conto saranno gli azionisti e i titolari di obbligazioni, oltre ai clienti con depositi superiori ai 100 mila euro.

Insomma, nulla sarà più come prima nel mondo del credito. I rischi aumentano. E i risparmiatori lo hanno capito benissimo, a volte sulla loro pelle. Qualche incauto commentatore ha pronosticato una fuga dai conti correnti, un “bank run” di massa, per dirla all’inglese. Previsione sbagliata. I dati pubblicati di recente dall’Abi, la Confindustria delle banche, confermano che tra novembre 2015 e gennaio 2016 non c’è stato nessun crollo dei depositi. Anzi, nei due mesi considerati, questi ultimi sono aumentati di poco, l’1,4 per cento, da 1.289 a 1.307 miliardi. È vero anche, però, che nello stesso periodo i risparmiatori hanno venduto in gran quantità obbligazioni bancarie, quelle al centro della bufera di novembre e dicembre. Proseguendo un trend che risale almeno al 2012, il valore di questo tipo di titoli sottoscritti da residenti in Italia a fine gennaio ammontava a 388 miliardi, 10 in meno rispetto a due mesi prima.

Nessuna fuga, quindi. A ben guardare, però, la calma piatta descritta dalle statistiche è soltanto apparente. Gli analisti confermano che se lo stock complessivo dei depositi è rimasto più o meno stabile, ci sono stati importanti travasi di capitale da una banca all’altra. A farne le spese sono stati ovviamente gli istituti percepiti dalla clientela come meno sicuri. A cominciare dai quattro salvati dal governo a fine novembre. Poi Popolare Vicenza e Veneto Banca, colpite da scandali e perdite in bilancio. E infine anche altri gruppi dai risultati poco brillanti come Mps, Banco Popolare e Carige. I primi due, che sono rispettivamente il terzo e il quarto gruppo bancario nazionale, hanno entrambi fatto registrare dati negativi sul fronte dei depositi.

Mps segnala che la raccolta commerciale, cioè conti correnti e depositi vincolati, è calata di 2 miliardi (meno del 2 per cento) tra ottobre e dicembre 2015. Il Banco Popolare ha invece perso per strada circa 1,3 miliardi di raccolta diretta per arrivare a fine 2015 a un totale di 53,4 miliardi. A differenza di altri concorrenti però, l’istituto con base a Verona nella gamma dei prodotti offerti alla clientela ha preferito non spingere troppo sui depositi vincolati, considerati troppo onerosi. Più pesante la situazione di Carige, che ha visto sparire nell’arco di un anno oltre 23 miliardi di depositi, oltre il 12 per cento del totale. Il deflusso più importante è stato registrato nei conti degli ultimi tre mesi del 2015, quando, come spiega un comunicato ufficiale dell’istituto genovese, si è verificato «un significativo cambiamento nella percezione della rischiosità del sistema bancario da parte della clientela ordinaria». Insomma, per dirla in due parole, effetto panico, o poco ci manca. La crisi si è fatta sentire anche al vertice della banca. La prossima assemblea dei soci, in calendario a fine mese, dovrebbe deliberare il ribaltone al vertice, con l’uscita dell’amministratore delegato Piero Montani, finito in rotta di collisione con il primo azionista di Carige, l’imprenditore Vittorio Malacalza.

I casi più eclatanti, però, restano quelli di Veneto Banca, con un calo dei depositi di oltre l’8 per cento nel 2015, e quello della Popolare di Vicenza, che nel 2015 ha visto crollare i conti correnti addirittura del 23,3 per cento. Una botta pesantissima per una banca, quest’ultima, già in forte difficoltà, colpita da un crollo della liquidità disponibile soprattutto nell’ultimo trimestre dell’anno, quando le vicende del bail in si sono sommate alle notizie sulle indagini della magistratura, ora anche per associazione per delinquere, sulla passata gestione dell’istituto. Per far fronte alla crisi, e riportare sotto controllo quello che i tecnici chiamano funding, l’amministratore delegato Francesco Iorio, in carica dalla primavera scorsa, ha varato una serie d’interventi in corsa, compresa, come detto, l’offerta di conti correnti con rendimenti ben più elevati di quelli medi di mercato.

Per dare un’idea della situazione basta far riferimento a un parametro, il liquidity coverage ratio (LCR), che indica le attività prontamente monetizzabili, a cominciare ovviamente dai conti correnti, a disposizione di una banca per far fronte a improvvise crisi di mercato. Il limite di sicurezza, previsto dai regolamenti bancari europei, è al momento fissato a quota 70. A fine gennaio la Popolare di Vicenza navigava intorno a 80, ma un mese prima, nel pieno della bufera, era precipitata a 47,5, un livello da allarme rosso.

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