Il rapporto del Fondo Monetario non risparmia pesanti critiche al nostro sistema del credito e al rischio contagio che può partire dal nostro paese e interessare tutta l'Europa. Ma per il premier, tra le righe, c'è anche un importante segnale di sostegno
Nella corsa del governo Renzi a disinnescare la bomba banche, oltre al proiettile di qualche cecchino come il commissario Jeroen Dijsselbloem, che tira colpi pericolosi ma non ancora micidiali di richiamo alle regole, arriva anche un segnale di sostegno. Quello che da Washington lancia il Fondo monetario internazionale.
Nel lavoro di valutazione dello stato di salute dell'Europa, che si svolge ogni anno con visite e discussioni bilaterali, e che ha dato luogo ad un Report approvato il 6 luglio dall'esecutivo del Fondo guidato da Christine Lagarde, ma soprattutto nel lavoro di approfondimento sull'Italia che è stato reso pubblico ieri, arriva soprattutto un invito al pragmatismo. Nessuna indulgenza per lo stato di salute del sistema bancario italiano, ma anche scarsa alleanza con i no dell'olandese che guida il team dei 19 ministri delle Finanze. Nella visione del Fondo la situazione richiede molta più flessibilità nell'uso degli strumenti a disposizione di quanta mostri di averne l'Europa. A cominciare dall'entrata in campo dell'intervento dello Stato. Meno tabù, insomma, e soprattutto una determinazione a risolvere il problema che l'Europa stenta a mostrare.
Il primo messaggio chiaro e forte che arriva da Washington non fa sconti. L'Europa è potenzialmente esposta ad una nuova crisi: per la fragilità della crescita, persino rallentata dopo la
Brexit, per i venti che turbano la stabilità politica, per la crisi dei rifugiati, per la bassa produttività, insomma per tutte le ben note debolezze che l'azione comune europea non è stata in grado di risolvere.
In questo contesto, è la diagnosi dei direttori del Fondo, c'è un malato particolarmente grave, e sono le banche. Occorre fare pulizia nei loro bilanci, promuovere un ulteriore consolidamento del sistema bancario, accompagnarlo alla svalutazione di attivi che non rispecchiano più la realtà, e “in systemic cases, State aid rules could be applied flexibly”. Vale a dire che laddove c'è un rischio sistemico (e qui pare proprio esserci), le regole sugli aiuti di Stato possono essere applicate in modo flessible.
Se la malattia è europea, è l'Italia la fonte del contagio. Ed è per questo che per la prima volta su di noi e sulle nostre banche viene fatto un esame così approfondito e dettagliato. Triplicati dall'inizio della crisi, i micidiali Npl, i non performing loans, cioè i prestiti bancari che non vengono restituiti, in Italia sono 360 miliardi di euro, e valgono un terzo di quelli dell'intera area europea. Nonostante gli sforzi fatti finora per limarne l'ammontare, restano ad un livello talmente alto da minacciare la stabilità dell'intera area. È urgente quindi agire, velocemente, per ridurre lo stock dei Npl e per frenare il flusso dei nuovi. Ma come? Le autorità nazionali hanno già fatto molto, dicono gli analisti del Fondo, ma serve di più.
Questo di più è sintetizzato con una formula conosciuta in tutto il mondo come il sistema del bastone e della carota, dicono i tecnici del Fondo. Ma andiamo con ordine, partendo dalla fotografia della situazione italiana. Le cause dell'accumulo dei Npl italiani, dice il rapporto “Cleaning-up Bank Balance Sheets: Economic, Legal, and Supervisory Measures for Italy”, sono da attribuire certo alla crisi, ma anche ad altri difetti fisiologici dell'italian system, agli scarsi requisiti di capitale di molte banche, per esempio, al loro numero eccessivo, e a un sistema legale che rende difficili le procedure fallimentari e di recupero dei crediti. Tutte cose ben note e sulle quali già sono stati applicati correttivi da questo governo, come ammettono i commissari inviati da Washington.
Ma prima che questi correttivi facciano effetto, occorre affrontare la montagna di crediti a vari di stadi di sofferenza che, anche se oggi non aumentano più allo stesso ritmo del passato, restano la miccia accesa attaccata al candelotto di dinamite che può far deflagrare l'intero sistema.
Cosa c'è dentro questo stock? Eccone l'identikit. Apprendiamo infatti dall'analisi del Fondo che sulla platea dei soggetti che non sono in condizione di restituire il prestito, il 75 per cento si era indebitato per meno di 75 mila euro. Qui dentro ci sono le famiglie, naturalmente, ma sono poche, il grosso sono piccole e medie imprese. Se si guarda invece il moloch degli Npl dal punto di vista all'entità dei debiti non restituiti, più del 75 per cento riguarda prestiti oltre i 250 mila euro. Tre quarti del problema degli Npl, insomma, riguarda le imprese. In difficoltà, forse fallite. E comunque imprese che si collocano soprattutto in una zona dell'Italia. Mentre nel 2009 quasi tutte le regioni italiane avevano un certo tasso di sofferenze, il quale però si aggirava sotto la soglia di guardia del 10 per cento, ora quel tasso è schizzato oltre il 20 per cento, ma dilagando soprattutto nelle regioni del Centro-sud.
Ciò che la distribuzione degli Npl nel sistema bancario mette in luce è che, anche se due terzi delle sofferenze fanno capo alle cinque banche maggiori, con Unicredit in testa, seguita da Intesa, Montepaschi, Banco Popolare e Ubi, sono le banche popolari che preoccupano di più, considerando qual è per loro il rapporto tra sofferenze e tasso di copertura. Colpa della crisi che le ha penalizzate di più? Neanche questo è vero: a mettere l'Italia nella situazione di sorvegliato speciale in cui è oggi è stata colpa anche delle stesse banche. Un indizio: il momento di picco dei fallimenti aziendali (che quindi non hanno restituito i prestiti) è stato alla metà del 2012. Dopo, gli Npl avrebbero dovuto diminuire, osservano gli analisti del Fondo. Invece no. Il che vuol dire che le banche hanno continuato a prestare denaro senza troppo badare ai rischi che correvano.
Ed eccoci alle soluzioni, al famoso “bastone e carota”. Innanzitutto, dicono gli uomini del Fondo, occorre che le banche seguano gli stessi standard di contabilità e classificazione degli attivi: le grandi sono obbligate a farlo da tempo, le piccole hanno cominciato a farlo da poco, e quindi hanno bisogno di un supplemento di controllo, non essendo sottoposte come quelle maggiori al Single Supervisory Mechanism. Secondo: le banche devono separare gli Npl dal “business as usual” e affrontare il problema in maniera più specifica e professionale (senza mezzi termini gli autori dicono che l'approccio specialistico è scarso). Ci deve essere cioè un esponente del top management che si occupa esclusivamente della strategia per liberarsi degli Npl, con monitoraggio stretto e rendiconti frequenti e gli occhi della Banca d'Italia addosso. Insomma, si dovrebbero applicare anche da noi le regole di emergenza chieste ai paesi che hanno già vissuto una crisi estrema del credito, come Grecia e Islanda, Cipro e Spagna. L'anticamera di un commissariamento internazionale.
Quanto alla carota, il Fondo suggerisce l'uso di incentivi fiscali per accelerare la pulizia dei bilanci dalle sofferenze, e anche l'uso di investitori esterni che lavorino con le banche per ristrutturare le imprese insolventi, o che acquistino direttamente gli Npl. Per le banche popolari, vero incubo per il Fondo, si suggerisce un veicolo che si occupi della “pulizia” dell'intero segmento del credito in questione, ma che andrebbe guidato da un manager esterno, a dire della scarsa fiducia per la nostra classe di banchieri. Ma per intervenire sull'intero sistema il Fondo vede di buon occhio una soluzione che suona eresia in Europa.
Un veicolo di livello nazionale (un asset management company), dove sia lo Stato ad avere un ruolo di sostegno e finanziamento. Questa soluzione per ora è stata messa da parte per via del tabù europeo contro gli aiuti di Stato? Peccato, osservano quelli del Fondo, perché nel frattempo è l'incertezza proprio su questo possibile intervento che blocca qualsiasi soluzione alternativa. E il pericolo di una crisi di sistema aumenta.