Doveva ridare fiato al settore edile bloccato da scandali e crisi economica. Ma il nuovo decreto del Governo complica ancora di più le procedure. E renderà più difficile portare a termine le grandi opere incompiute

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Quale contributo può dare al riscatto di un settore fondamentale ma in pesante crisi come quello delle costruzioni (600mila dipendenti persi pari a un terzo del totale e 120mila imprese fallite negli ultimi 10 anni) un decreto in cui all’ambizione del titolo, “sblocca-cantieri”, fa riscontro l’assenza di misure in grado di realizzare tale missione? Anzi, il decreto in discussione al Senato aggrava il corto circuito burocratico-finanziario che dai tempi di Tangentopoli (1992) tiene fermi gli investimenti pubblici.

«Il testo prevede che per le più importanti opere bloccate si nomini un commissario», spiega Edoardo Bianchi, vicepresidente dell’Ance con la delega per le infrastrutture. «Però non chiarisce esattamente le attribuzioni di questa figura. Se dovesse ripetersi l’esperienza del ponte di Genova c’è il pericolo di un’eccessiva semplificazione delle norme con l’esclusione arbitraria di questa o quell’impresa e una palese violazione delle regole di mercato». Gli scontri nella maggioranza fanno il resto: si litiga sul numero di opere per cui è prevista la figura del commissario, sui suoi compiti, sull’identità di questi plenipotenziari.

Inchiesta
La legge Sblocca cantieri in realtà sblocca le tangenti
28/5/2019
I 5 Stelle accusano il Carroccio di utilizzare la chiave del commissario per un colpo di mano sulla Tav senza attendere che si arrivi a una posizione comune (cioè mai) e giocando sporco: il viceministro alle Infrastrutture leghista Edoardo Rixi avrebbe presentato un emendamento per accorpare i lavori del Terzo Valico e del Nodo ferroviario di Genova inserendoci zitto zitto la Tav come opera “prioritaria”. Proprio sulla Torino-Lione si arrivò alla rottura nella maggioranza quando un confronto di cinque ore il 7 marzo finì con Salvini che proclamava «Si farà» e Di Maio che rispondeva: «No a costo di far cadere il governo».

Di lì, l’escalation: via della Seta, flat tax, migranti, sicurezza. Lo sbloccacantieri era stato approvato dal governo “salvo intese” una prima volta il 20 marzo, poi visto il ritardo con cui venivano formulati gli articoli per l’incompatibilità delle posizioni, il Colle ha sollecitato l’approvazione “vera” che è arrivata un mese dopo - il decreto ha il numero 32 del 18 aprile 2019 - ma solo per trasferire lo scontro nelle aule parlamentari. Ora è tutto fermo per le elezioni.

Tav a parte, il decreto fallisce proprio dove è avvertito come necessario, la semplificazione della macchina burocratica. La “sindrome della firma” colpisce funzionari di ogni ordine e grado: è talmente complicata e contraddittoria la normativa che prendersi la responsabilità di firmare uno dei tanti passaggi espone al rischio di finire sotto indagine per abuso d’ufficio, con tanto di danno erariale contestato dalla Corte dei Conti.

«Chissà perché, l’omesso atto d’ufficio è contestato raramente: qui la legge doveva intervenire», insiste Bianchi. Un moloch di cui fanno le spese imprese piccole e grandi: «Potevano almeno prevedere un massimo di tempi per ogni fase, dall’autorizzazione alla realizzazione: destreggiarsi nei meandri delle decine di amministrazioni interessate è un’operazione proibitiva, defatigante e costosissima che non tutti si possono permettere», accusa Simone Camaiani, amministratore delegato di Ottima, un Pmi innovativa da dieci dipendenti e 2 milioni di fatturato che gestisce impianti di illuminazione urbana. «Le nostre sono piccole opere e già ci vogliono tre anni in media per realizzarle, figurarsi le grandi opere».

La classifica delle incompiute parla chiaro: il progetto della Tav (un lavoro da 9 miliardi dopo le ultime revisioni) cominciò nel 1991, la Gronda di Genova (5 miliardi) nel 1989, la Asti-Cuneo (2 miliardi) nel 1998, la terza corsia dell’A11 Firenze-Pistoia (500 milioni) nel 1999, la statale 106 Ionica (1,4 miliardi) nel 2002, l’autostrada Cremona-Mantova (1 miliardo) nel 2005, l’alta velocità Brescia-Verona (2,5 miliardi) nel 2003. Ci sono casi storici: è tuttora esecutivo ma sospeso il progetto dell’Autostrada “due mari” Grosseto-Fano, finanziato con 380 milioni e concepito nel 1956. Nel complesso, le 53 opere che valgono 100 o più milioni oggi bloccate valgono 51 miliardi, e 550 opere medio-piccole altri 2,3 miliardi.

L’Ance calcola che avviarle può creare 870mila posti di lavoro e 187 miliardi di ricadute per l’economia. «Le possibilità di sbloccare davvero i cantieri sono quasi nulle eppure lo sbloccacantieri ha la pretesa di sostituire tutta la pletora di norme precedenti», riflette Giorgio Lupoi, amministratore dello studio di architettura e ingegneria Speri e consigliere Oice. «Il decreto complica ancor più le cose quando non incoraggia più i consorzi fra piccoli Comuni, che sono essenziali per le infrastrutture perché una piccola amministrazione spesso non ha, non per sua colpa, risorse finanziarie né capacità progettuale. Bisogna concentrare le risorse pubbliche nelle attività più importanti: programmazione, project management, controllo, anziché sulla progettazione che ha complessità e competenze difficili da formare. Non a caso nei precedenti codici era stata “esternalizzata”».

L’impasse sulle infrastrutture va al di là della cronaca giudiziaria: se magicamente svanissero tutte le corruttele, le dinamiche economiche sono tali che il settore resterebbe bloccato. Hanno superato i 150 miliardi, otto punti di Pil in grado potenzialmente di rilanciare alla grande l’economia, i fondi fra europei e nazionali stanziati negli ultimi 15 anni e utilizzati - calcola l’Ance - per non più del 4%. In tutti questi anni le leggi si sono stratificate senza sosta fino a creare una giungla inestricabile. «Tutto cominciò con la legge Merloni del febbraio 1994, una normativa d’emergenza che comportò un primo irrigidimento del sistema», commenta Paolo Mazzoli, avvocato presso lo studio LexJus Sinacta nonché docente di diritto dei contratti pubblici. «Sono seguiti interventi a cascata privi di un disegno organico, tutti basati su vincoli e controlli».

Al primo codice degli appalti (decreto legislativo 163 del 2006) hanno fatto seguito ben 15 provvedimenti correttivi negli anni successivi compreso uno per sanare la procedura d’infrazione Ue, dopodiché è arrivato il vero e proprio regolamento attuativo (Dpr 201 del 2010). Ma poco dopo tre direttive europee nel 2014 hanno reso necessario un nuovo codice degli appalti, approvato (decreto 50) il 18 aprile 2016, ultimo giorno utile per recepire le disposizioni Ue. Ma poi un ennesimo decreto (56 del 2017) ha corretto il nuovo codice. Intanto, come in un incubo continuava la pioggia di provvedimenti ministeriali d’interpretazione, e poi le linee-guida dei ministeri delle Infrastrutture e dell’Ambiente, quelle sui partenariati pubblico-privati del Mef, le delibere Anac, i pareri del Consiglio di Stato. Infine è planato su quest’oceano burrascoso lo sbloccacantieri. Sul quale si gioca non solo la partita della crescita ma anche della tenuta del governo. Dal 2010 ad oggi, a causa di questa che è l’unica crisi mai passata, l’Italia ha perso il 29% degli investimenti pubblici mentre nell’eurozona la perdita è stata solo del 4,8%. Una forbice che si allarga a nostro sfavore anno dopo anno.

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