«Sette miliardi? Serve più del triplo. Altrimenti il coronavirus porterà a una grave recessione»
Parla l'economista Emiliano Brancaccio: «Le quarantene attaccano il virus ma anche l'economia. Il Pil può cadere del 2-4 per cento. Ai provvedimenti sanitari vanno affiancati subito robusti investimenti pubblici. O sarà una crisi sociale pesantissima»
«Il governo commette un grave errore se bada solo alle politiche di contenimento del virus e non tiene conto dei loro effetti recessivi sull’economia. Quanto più si insiste con quarantene, serrate e chiusure di scuole e uffici, tanto più bisogna attivare un piano di investimenti pubblici per il rilancio economico». Il professor Emiliano Brancaccio, economista dell’Università del Sannio, lancia l'allarme dopo la chiusura delle scuole e gli altri provvedimenti del governo.
Lei sostiene che i rischi di una nuova recessione internazionale erano concreti già prima del coronavirus. In che misura la diffusione del covid-19 può aggravare la situazione? «Già nell’outlook dello scorso ottobre il Fmi segnalava un aumento delle probabilità di caduta della crescita mondiale e un’accentuazione di alcuni rischi sistemici, dalla forte esposizione delle istituzioni finanziarie non bancarie all’espansione delle bolle speculative sui mercati azionari. Il quadro economico era dunque già molto complicato. Ovviamente il coronavirus aggraverà la situazione, come ormai riconoscono sia l’Fmi che l’Ocse.»
È possibile fare qualche previsione? «Stando a una ricerca pubblicata qualche anno fa dal direttorato generale della Commissione europea, una ipotetica pandemia che abbia un tasso di mortalità simile a quello stimato per il coronavirus potrebbe determinare un calo del Pil europeo breve ma pesante, del due per cento in media e fino a una caduta estrema del quattro per cento. Altri studi fanno previsioni meno pessimistiche. Però tutte le analisi sollevano un problema rilevante, che riguarda la gestione dell'epidemia».
Quale? «Se la politica di contenimento del virus è fatta di quarantene, chiusura di scuole e uffici e blocchi stradali, si creano due effetti contrastanti: da un lato può darsi che la propagazione del virus venga limitata, ma dall’altro lato si interrompono i circuiti della produzione e della spesa e si favorisce così la propagazione della recessione economica. In termini approssimativi, potremmo dire che per ogni punto di abbattimento del tasso di riproduzione del virus a colpi di quarantene e serrate, c’è il rischio che il tasso di disoccupazione aumenti di mezzo punto».
Un bel dilemma per il governo. Come se ne esce? «Un criterio di buon senso consiste nel seguire la vecchia regola aurea del premio Nobel Jan Timbergen: se vuoi perseguire due obiettivi contrastanti, non ti basta un solo strumento di policy ma te ne servono almeno due. Tradotto nel nostro caso, significa che se combatti due “virus”, quello della propagazione della malattia e quello della recessione economica, allora ti servono come minimo due “anti-virus”. Ossia, più attui blocchi e serrate per arginare covid-19, più devi aumentare gli investimenti pubblici per tenere la disoccupazione almeno invariata».
In effetti il Consiglio dei ministri prepara un pacchetto di misure fino a 7,5 miliardi. È sufficiente? «No. Considerato che una parte delle risorse sarà assorbita dall’emergenza sanitaria, direi che a condizioni date urge un piano di investimenti pubblici di almeno 25 miliardi in Italia, coadiuvato da interventi ancor più ampi a livello europeo, tra cui misure monetarie per tenere anche i tassi d’interesse sul debito italiano sotto i tassi di crescita».
Ma questi sono interventi che ci porterebbero ben oltre la flessibilità di bilancio consentita dalle regole europee. Non si rischia un conflitto con Bruxelles? «L’intera comunità scientifica reputa quelle regole sbagliate in situazioni normali, figuriamoci nel corso di questa emergenza. “Unione europea” dovrebbe significare che i problemi sistemici si affrontano in un’ottica unitaria e coordinata tra i paesi membri. Finora non è andata così: dalle crisi bancarie alle crisi migratorie, hanno sempre prevalso comportamenti scoordinati e conflittuali e la reputazione delle istituzioni europee ne è uscita male. Se prevalesse l’inettitudine politica anche nel caso del coronavirus sarebbe l’ennesima onta, dal punto di vista simbolico forse persino peggiore delle precedenti. Se questa emergenza sanitaria viene accompagnata da una politica economica inadeguata, potrebbe diventare un punto di non ritorno: non solo per il governo nazionale ma anche per i destini dell’unificazione europea».