
Quattro anni dopo siamo daccapo. Renzi ha innescato una crisi di governo, mentre il Monte annaspa ancora. Secondo gli accordi raggiunti nel 2017 con l’Unione Europea, Mps dev’essere privatizzato entro quest’anno, ma a Roma non sanno che pesci pigliare, perché di compratori non se ne vedono e intanto bisogna versare quanto prima almeno due miliardi di euro per riportare i conti in linea di galleggiamento. Rispetto al precedente del 2016, la situazione appare oggi molto più grave, perché la pandemia avrà effetti pesanti anche sui bilanci degli istituti di credito. Ed è facile prevedere che a Siena, dove da almeno un decennio si naviga a vista, i danni saranno più gravi che altrove.
In altre parole, crisi finanziaria e crisi politica si intrecciano l’una con altra e il caos che ne consegue finisce per allontanare la soluzione di problemi già di per sé complessi. Il discorso vale anche per dossier come Alitalia e Autostrade, su cui il governo da tempo gira a vuoto. I conflitti all’interno della stessa maggioranza sul futuro del Monte dei Paschi sembrano ancora più difficili da ricomporre e rischiano di far deragliare un treno che a fatica è fin qui rimasto sui binari. Dopo settimane di intese vere e presunte, annunci e precipitose correzioni di rotta, la confusione regna sovrana. Almeno un fatto è certo, però: comunque vada a finire, a pagare il conto del salvataggio della banca di Siena saranno ancora una volta i contribuenti italiani. Non c’è ancora nulla di definito, ma il costo complessivo dell’operazione potrebbe variare tra i 5 e i 20 miliardi. Piove sul bagnato perché, come detto, nel 2017 il ministero dell’Economia, con il via libera di Bruxelles, mise sul piatto 5,4 miliardi per il 70 per cento dell’istituto a rischio crac. Di quell’investimento ora restano le briciole. Ai prezzi di Borsa di questi giorni, la quota pubblica nel capitale di Mps vale a malapena 700 milioni. La perdita per l’erario ammonta quindi a 4,5 miliardi.
Visti i precedenti, adesso il governo vorrebbe coinvolgere capitali privati e da mesi fa pressioni su Unicredit perché si faccia carico del concorrente in difficoltà. Il promesso sposo appare però quantomeno recalcitrante. L’amministratore delegato Jean Pierre Mustier, che vedeva come il fumo negli occhi lo sbarco a Siena, a fine novembre ha annunciato le dimissioni, stanco di dover trattare con un board sempre più freddo sui progetti di riassetto societario del gruppo presentati dal manager francese. Il nome del successore ancora non c’è, ma intanto fin dallo scorso ottobre gli azionisti di Unicredit hanno designato alla presidenza Pier Carlo Padoan, cioè il deputato Pd che da ministro dell’Economia, quattro anni fa, gestì il primo salvataggio di Monte dei Paschi. Negli ambienti finanziari, e non solo, tutti hanno interpretato l’arrivo di Padoan, un economista che non ha nessuna esperienza di gestione bancaria, come il tentativo della politica di condizionare le scelte del colosso del credito.
Già nel 2007, con Alessandro Profumo al timone, Unicredit si lanciò in un affare ad alto rischio come l’acquisizione di Capitalia, l’ex Banca di Roma imbottita di crediti difficili da riscuotere. All’epoca, l’intervento di Profumo trovò l’entusiastico consenso di un variegato fronte politico che andava da Silvio Berlusconi fino ad ampi settori del centrosinistra, tutti debitori di molti favori a Cesare Geronzi, che a giochi fatti si trasferì dal vertice di Capitalia a quello di Mediobanca e poi di Generali. Ironia della sorte, a Roma, nella squadra dei manager che tirò le fila della vendita della banca di Geronzi, c’era anche Guido Bastianini, il manager raccomandato dai Cinque stelle che nel maggio scorso è approdato alla guida del Monte dei Paschi. Altri tempi, quelli. Il settore bancario macinava profitti ben più elevati rispetto a quelli di oggi e così, pur con molta fatica e qualche incidente di percorso, Unicredit riuscì a gestire quell’operazione a dir poco complicata.
Adesso però i conti di Mps sono ben più disastrati di quelli della Capitalia di 13 anni fa. E anche il compratore non si sente troppo bene, almeno rispetto al 2007. Sul mercato però scarseggiano le alternative. Intesa, reduce dalla recente acquisizione di Ubi, ormai vale da sola oltre il 20 per cento del mercato e non è pensabile che scenda di nuovo in campo. D’altra parte, le nozze tra il Monte e il BancoBpm guidato da Giuseppe Castagna, oggi la terza banca italiana, sembrano un azzardo per il compratore, che ha ancora molto da fare per mettere ordine in casa propria. Senza contare che Castagna guarderebbe semmai con maggior favore a una eventuale fusione con la rampante Bper di Modena (già Popolare dell’Emilia Romagna). E allora non resta che Unicredit. Che però frena, anche perché il salvataggio di Mps lascia a dir poco perplessi soci importanti come Leonardo Del Vecchio affiancato dalle fondazioni Crt (Torino) e CariVerona. Con una quota complessiva del 5,3 per cento circa, sono questi i principali azionisti, di quella che è ormai a tutti gli effetti una public company.
Per convincere i riottosi, il governo sarebbe pronto a fare ponti d’oro verso Siena alla grande banca milanese. Tutto a spese del contribuente, s’intende. Tanto per cominciare, vanno considerati i vantaggi fiscali delle cosiddette Dta (Deferred tax assets), che la maggioranza ha confezionato nell’ultima legge di bilancio con un provvedimento ad hoc. In caso di acquisizioni, Unicredit potrebbe così mettere all’attivo circa 3 miliardi. Poi ci sarebbe la cessione di crediti deteriorati per una cifra che secondo alcuni analisti potrebbe raggiungere i 10 miliardi. Per curare questa operazione è pronta Amco, la società pubblica che si occupa della gestione dei cosiddetti Npl (Non performing loans). La stessa Amco nel novembre scorso ha già sgravato il bilancio Mps di prestiti a rischio per 7,5 miliardi. Infine, visto che sulla banca di Siena gravano rischi legali per circa 10 miliardi, un lascito delle travagliate gestioni passate, c’è anche la possibilità che venga trovato il modo di trasferire parte di queste potenziali passività a un’entità a controllo pubblico. In materia ci sono poche certezze, perché le operazioni allo studio sono al momento poco più che semplici ipotesi. Gli analisti però calcolano che la somma di questi aiuti pubblici, da sottoporre comunque al vaglio della Commissione di Bruxelles, potrebbe arrivare a pesare sulle casse dello Stato per una cifra ben superiore ai 5 miliardi. Questo, in breve, è il pacchetto regalo confezionato per Unicredit. Al momento però lo stallo è totale, anche perché gli interventi allo studio del Tesoro, difesi dal ministro Roberto Gualtieri e da buona parte del Pd, non hanno fatto breccia nel muro eretto dai dai Cinque stelle. Per i grillini, il Monte dei Paschi deve restare autonomo e nelle mani dello Stato. Semmai quest’ultimo dovrebbe ripulire il bilancio dell’istituto senese, facendosi carico delle attività più a rischio, in modo da promuovere un’aggregazione tra Mps e la Popolare di Bari, salvata dal crac l’anno scorso grazie all’intervento del Mediocredito Centrale a controllo pubblico. Obiettivo finale: creare una grande banca al servizio delle imprese del Centro-Sud.
Slogan a parte, a Siena come in Puglia per risanare i conti servirà tempo e denaro e non è detto che mettendo insieme i due malati la rimonta si riveli più semplice. Anzi. Il Monte nei primi nove mesi del 2020 ha perso 1,5 miliardi e nel piano appena presentato da Bastianini il bilancio non tornerà all’utile prima del 2022, ammesso che si trovi un investitore disposto a coprire il buco patrimoniale di 2 miliardi. Anche a Bari la ristrutturazione è appena partita e la luce in fondo al tunnel pare ancora lontana. Ecco perché molti analisti hanno bollato l’ipotetica unione tra le due banche vagheggiata dai Cinque stelle come la futura “Alitalia del credito”, un buco senza fondo destinato a divorare risorse pubbliche per anni. Tutto questo mentre il mondo finanziario si avvia a fare i conti con le conseguenze della crisi pandemica, fin qui arginata con una moratoria generalizzata sui prestiti a favore di 2,7 milioni di clienti, tra famiglie e imprese. Quando l’emergenza finirà è molto probabile che il sistema dovrà fare i conti con una nuova ondata di crediti a rischio. Non proprio la situazione ideale per metter mano a salvataggi bancari.