Promesse

No, la finanziaria del governo Meloni non aiuta le famiglie e le nuove nascite

di Gloria Riva   1 settembre 2023

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Il governo s’appresta a scrivere una legge di Bilancio che promette di favorire la natalità. Ma i soldi del taglio al cuneo fiscale e l’assegno unico non sono un incentivo sufficiente per fare figli nel deserto dei servizi

Giorgia Meloni vuole tessere una legge di bilancio di rigore, perché soldi non ce ne sono e, quei pochi a disposizione, dovranno essere utilizzati per favorire le famiglie e, soprattutto, la natalità. Benissimo. I quattrini a disposizione, in effetti, sono pochini: secondo le prime stime degli analisi mancano all'appello 18 miliardi. Sempre che la curva di crescita non si fletta troppo in questi ultimi mesi, sotto ai colpi di quella crisi-recessione che ha già toccato Germania e Francia e che ora inizia a intaccare anche il sistema Italia.

 

Le previsioni di crescita, che saranno rese note a fine settembre attraverso la Nadef, la Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanzia, sono fondamentali per definire la quantità di deficit programmatico (cioè il rapporto tra le entrate e le uscite) per il 2024 e per il 2025. Detto altrimenti: il governo saprà quanti soldi avrà a disposizione per la spesa pubblica 2024, soltanto quando sarà in grado di prevedere quanto incasserà in quei dodici mesi. Scontato che il governo non può permettersi di andare in deficit, le cifre che in questi giorni si rincorrono sulle poste a bilancio 2024 sono, come le ha definite il ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, «Chiacchiere, come nel calcio d'agosto», perché finché non sarà disponibile la Nadef non è possibile ragionare sulla quantità di denaro a disposizione per il 2024.

 

Di certo, però, la coperta sarà corta, e non è certo una novità, perché proprio come lo scorso anno, la riduzione delle imposte sul reddito, ha un costo di circa 10 miliardi di euro

 

Dicevamo, però, che bisognerà trovare le risorse per incentivare la natalità. Ma di sicuro per qualsiasi padre e madre (o aspirante tale) è già chiaro che quattro soldi in più in tasca non faranno cambiare loro idea. Perché il problema non è rimpolpare l'assegno unico o dare cento euro in più in busta paga, il problema è l'assenza dei servizi sui territori che impediscono alle famiglie di conciliare vita e lavoro.

 

Le famiglie più perspicaci già sanno che quest'anno, esattamente come lo scorso anno e nel decennio precedente, la finanziaria d'autunno non segnerà l'inizio di una nuova era, bensì rappresenterà l'ennesimo stillicidio di piccoli spostamenti di denaro, da una voce di bilancio a un'altra, senza mai incidere veramente sul sistema paese perché manca totalmente una discussione seria per sostenere un modello che sia davvero a misura di bambino (e di cittadino), con i suoi doveri (pagare le tasse, tutte fino all'ultimo centesimo) e diritti (avere a disposizioni servizi pubblici di qualità). Insomma, l’argomento natalità dovrebbe far parte di un piano più complessivo, mentre relegarlo alla legge finanziaria sembra più un bluff.

 

Se Giorgia Meloni avesse davvero a cuore la natalità, probabilmente si sarebbe fatta un giro in Trentino Alto Adige, unico territorio italiano in cui la natalità tiene botta. Ci sarebbe andata almeno per capire come mai lì le famiglie hanno ancora il coraggio di fare figli. In numeri: ogni donna italiana ha una media di 1,24 figli, mentre in Trentino Alto Adige il tasso di fecondità è dell'1,51. A dirlo è l'Istat, che specifica come la popolazione risulti in aumento nel solo Trentino Alto Adige (più 1,6 per mille), e in misura minore anche in Lombardia e in Emilia Romagna (guarda caso le aree in cui i servizi offerti a cittadini e famiglie sono migliori). Le regioni in cui, invece, si è persa più popolazione sono Basilicata, Molise, Sardegna e Calabria, tutte con tassi di decrescita che si attestano attorno al sette per mille.

 

Per capire come mai la regione dei profondo Nord è in controtendenza, già nel 2019 i demografi Marcantonio Caltabiano e Alessandro Rosina, il primo dell'università di Messina, il secondo della Cattolica di Milano, pubblicavano un interessante articolo su LaVoce.info dal titolo “Il declino delle nascite si può fermare” , spiegando che il calo delle nascite non è un destino ineluttabile, al quale rassegnarsi e che, per invertire la tendenza bisogna costruire un ambiente sociale favorevole alle coppie con figli, varando politiche incisive e inclusive: «Come insegna l'Alto Adige», scrivono i due docenti, che continuano: «La ricetta è semplice. L’attenzione verso le nuove generazioni e le politiche familiari diventano una priorità con impegno al continuo miglioramento. La cultura della conciliazione tra lavoro e famiglia è consolidata nelle aziende come valore condiviso, comprese le piccole imprese alle quali è fornito supporto qualificato per sperimentare soluzioni specifiche e innovative. L’offerta dei servizi per l’infanzia è versatile e diversificata, stimolando anche l’iniziativa privata, ma con garanzia di qualità certificata dal pubblico. Certamente le caratteristiche del tessuto produttivo dell’Alto Adige hanno aiutato a contrastare gli effetti della crisi, ma è soprattutto un ambiente favorevole alle coppie con figli a far sì che i valori del tasso di fecondità totale si avvicinino a quelli dei paesi scandinavi più che a quelli del resto del paese».

 

Detto altrimenti, la ricetta trentina e alto atesina a sostegno della natalità, non è quella di dare più soldi in tasca ai cittadini, bensì quella di valorizzare i servizi. Un principio quest'ultimo che è passato di moda da parecchio tempo fra i politici presenti in tutto l'arco parlamentare, ma che continua a essere il viatico – l'unico possibile – verso un'inversione della natalità, ma anche l'unico che consentirebbe un rifinanziamento del servizio sanitario nazionale e del welfare.

 

Il motivo è presto spiegato. Con un esempio. Pensiamo a una coppia con un figlio, che vive in un comune dove non c'è un asilo nido pubblico e neppure una scuola materna statale e dove, magari, la scuola primaria non prevede il tempo pieno. E continuiamo a pensare a questa coppia, che non ha nonni a disposizione per badare al piccolo quando finiscono le lezioni, nel mese di luglio e ad agosto, zero aiuti famigliari nei periodi in cui le scuole sono chiuse (mentre quelle aperte e i centri estivi sono a caro prezzo): davvero i ministri del governo Meloni ritengono che questa famiglia a fronte di duecento euro in più al mese (consideriamo che entrambi i genitori guadagnino non più di 35mila euro l'anno e godano del taglio del cuneo fiscale), sommati ai circa 200 euro dell'assegno unico, si imbarchino nella folle missione di avere un secondogenito? Un pensierino, forse, potrebbero farlo se lo Stato garantisse una scuola pubblica funzionante, una detrazione fiscale per l'assunzione occasionale di una baby sitter (o la frequenza di centri estivi), un asilo nido comunale, un dopo scuola pubblico, un’assistenza territoriale, un pediatra di base presente nel proprio distretto. 

 

È pur vero che, fra le ipotesi in campo, il governo starebbe pensando a bonus sostanziosi – addirittura si è ventilata la possibilità di un incentivo da 400 euro al mese per ciascun figlio fino al sesto anno d’età – ma la verità è che la finanziaria dura un anno (e gli incentivi possono cambiare), mentre un figlio è come un diamante: per sempre.

 

La questione è che, vuoi per mantenere compatta la maggioranza, vuoi per non scontentare il proprio elettorato di riferimento, vuoi per una certa consuetudine dei governi che si sono succeduti, vuoi perché mettere in campo più servizi significa delegare alle regioni e ai comuni la gestione della spesa pubblica (con relativa perdita di potere centrale), si continua a sostenere un generico aumento della spesa pubblica in denari, anziché sostenere i costi di welfare e servizi. Nella stessa direzione va anche l’ipotesi, al vaglio del governo, di stanziare quattrini per la creazione di nidi aziendali, che continua a non essere sufficiente per un papabile genitore, che necessita di certezze granitiche prima di mettere al mondo un figlio. 

 

Sia chiaro, il problema di Giorgia Meloni non è quello di essere peggio degli altri nella scarsità di offerta di servizi pubblici, bensì quello di fare esattamente come hanno fatto gli altri premier, nonostante la promessa di un radicale cambio di passo. Va però detto che è stato proprio il suo governo a mancare l’appuntamento Pnrr dello scorso 30 giugno, data entro la quale l’Italia avrebbe dovuto portare a Bruxelles l’elenco degli appalti assegnati per la creazione di nuovi asili nido: un obiettivo da rinegoziare, gettando ulteriore incertezza tra le braccia di chi non disdegnerebbe un figlio, ma purtroppo non può permetterselo.

 

Ma dicevamo, il disinteresse per la spesa destinata ai servizi è trasversale ai partiti politici: dalle elaborazioni di Massimo Baldini, professore di Politica Economica all'Università di Modena e Reggio Emilia, sui conti della protezione sociale dell'Istat si scopre che in vent’anni (dal 2000 al 2020) la spesa sociale in denaro è salita di 8,4 punti di pil tra 2000 e 2020 (da 15,8 a 24,1 per cento), mentre quella in servizi di due punti (da 5,5 a 7,5 per cento). Nel settore sanitario, stando ai dati del Cergas Bocconi, lo Stato spende mediamente 950 euro per cittadino, ma solo 360 servono a finanziare il servizio sociosanitario, gli altri 590 euro finiscono direttamente nelle tasche degli italiani che decidono, in totale autonomia, come usare quel denaro.

 

È implicito che, per invertire la rotta, serve tagliare risorse e privilegi a una parte del paese, magari partendo dal falciare gran parte delle seicento agevolazioni fiscali, sotto forma di deduzioni, detrazioni ed esenzioni, che lo stato garantisce a particolari categorie di cittadini: un ginepraio dove all'interno c'è di tutto, dal rimborso sulle spese per gli occhiali a quelle per il veterinario, dalle esenzioni per gli agricoltori, fino alla cedolare secca sugli affitti. Ma tutto questo può attendere. Così come gli aspiranti mamma e papà possono attendere servizi migliori per fare un figlio.