Politicamente, dopo l’abolizione del reddito di cittadinanza, la misura annunciata dal governo Meloni serve a conquistare consensi (e mettere in difficoltà la sinistra). Praticamente, rischia di generare un effetto domino ai danni dei titolari di depositi

Recentemente è scomparso Mario Tronti, filosofo e teorico della classe operaia. I suoi scritti hanno segnato più di una generazione. Ma alla fine, cavallerescamente, davanti al cambiamento della società si è dichiarato sconfitto ma non vinto. La sindrome dello «sconfitto ma non vinto» potrebbe pervadere presto tutta la sinistra che viene sempre più spesso sconfitta sul terreno della politica, anche se non ha nessuna intenzione di darsi per vinta definitivamente. Di certo, se non fosse per gli inciamponi sulle nostalgie fasciste di alcuni esponenti di Fratelli d’Italia, la corsa di Giorgia Meloni a fare il pieno di fiducia tra gli elettori sarebbe ancora più in discesa. Gli ultimi provvedimenti, a prima vista, hanno trovato il consenso di molti italiani. E hanno messo in difficoltà l’opposizione.

Oddio, nelle recenti decisioni del governo c’è un po’ di tutto anche al di là della delega fiscale e del decreto Asset. Si va dalle scelte bizzarre - come quella del taxi gratuito davanti alla discoteca per recuperare i ragazzi a rischio alcol test piuttosto che invitare ed educare le famiglie e i giovani a comportamenti corretti - ad altre discutibili, ma poi neanche tanto, come quella di togliere il tetto dei 240 mila euro di compenso a eventuali super esperti che dovrebbero costruire il ponte sullo Stretto di Messina.

Fermo restando che il ponte in sé e per sé rimane una follia e uno spreco, se si vuole davvero costruire la struttura più lunga al mondo e in condizioni ambientali difficili, non possono certo farlo due geometri del Comune. C’è bisogno di grandi architetti, grandi ingegneri che per 240 mila euro non escono nemmeno di casa. Lo scandalo semmai è continuare a pagare (non solo per la società del Ponte sullo Stretto, ma anche per centinaia di posizioni pubbliche) funzionari più o meno incapaci o nullafacenti nelle varie istituzioni che prendono stipendi d’oro.

Anche la riforma del fisco, pur contenendo vantaggi a favore di chi detiene maggiore ricchezza (da un governo che ha abolito il reddito di cittadinanza c’era da aspettarsi qualcosa di diverso?), può generare benefici non tanto e non solo per le categorie tradizionalmente privilegiate ma anche per alcune classi lavoratrici con il tentativo di detassazione di tredicesime, straordinari, fringe benefit per i redditi più bassi e un regime favorevole per i premi di produttività. Il problema semmai è sempre il solito. Ci sono i soldi per fare questa riforma?

La risposta è semplice: non ci sono, almeno adesso. Anche perché la vera fonte di approvvigionamento naturale sarebbe la lotta all’evasione fiscale. Ma nessun governo finora c’è riuscito, figuriamoci se ci riesce questo con così poca voglia di impegnarsi sull’argomento. Comunque sta provando a mettere insieme un po’ di risorse. E vuole farlo con un provvedimento imprevisto quanto “popolare”: la tassazione degli extraprofitti delle banche.

È il segnale che il governo di centro-destra vuole dare per affermare il primato della politica sul sistema economico-finanziario e le sue associazioni come Abi e Confindustria, anche se il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, che dovrebbe essere il regista dell’operazione, si è dato alla macchia come usa fare quando c’è da prendere decisioni importanti (lo faceva anche con il governo Draghi). Questa volta, forse, anche perché proprio Giorgetti aveva assicurato che mai si sarebbero tassati gli extraprofitti delle banche e lo aveva ripetuto pure in un comitato Abi a porte chiuse. C’è poi il problema dell’annuncio a sorpresa del provvedimento: i banchieri più importanti non hanno gradito questo aspetto. Certe scelte vogliono che siano discusse e ponderate. Se si dovessero mettere di traverso, potrebbe succedere come per la tassa sugli extraprofitti energetici: un ricorso alla Corte europea e, amen, si blocca tutto.

Tassare gli extraprofitti delle banche è una mossa peronista che può mettere in difficoltà l’opposizione, quasi un contrappasso dantesco per aver abolito il reddito di cittadinanza. Un’ottavina reale in termini politici. Infatti, il provvedimento era stato proposto in forma simile dal Movimento 5 Stelle e dall’ex ministro del Lavoro, Andrea Orlando, della sinistra Pd. E ha trovato il ragionevole consenso preventivo (già in maggio) di Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo, sempre molto attento ai riflessi sociali delle attività finanziarie.

Con il rialzo dei tassi a raffica generato dalla Bce per combattere l’inflazione, le banche si sono ingrassate: basta pensare che le prime quindici solo nel primo trimestre del 2023 hanno registrato maggiori profitti del 180%. Piccolo paradosso: tra gli istituti che verranno colpiti di più dalla tassa d’agosto (chiamiamola così) ci sarà sicuramente il Monte dei Paschi, banca controllata proprio dal ministero dell’Economia. A prima vista, appunto, il provvedimento appare popolare: le banche hanno guadagnato un sacco di soldi, non hanno alzato i tassi ai poveri depositanti, che paghino, quindi. Per di più, a detta del governo, i soldi (circa due/tre miliardi stimati) dovrebbero andare a ristorare mutui prima casa e al taglio delle tasse. I sanculotti finanziari sono serviti.

Da un punto di vista meno enfatico, il provvedimento che tassa gli extraprofitti serve al governo per fare cassa, di sicuro, ma non è detto per niente che faccia davvero un favore ai risparmiatori. Andiamo per ordine: intanto i titoli bancari in Borsa, dopo l’annuncio, sono crollati facendo perdere agli investitori oltre 9 miliardi di euro in un giorno (ironia della sorte, la tassa sugli extraprofitti non arriverà a un terzo di questa cifra). Questo però è un tema delicato, da non liquidare in due battute e da pesare in prospettiva, perché riguarda soprattutto la fiducia dei mercati internazionali: infatti bisognerà valutare gli effetti sullo spread a medio termine.

Intanto, però, se le banche decidessero di recuperare i soldi che dovranno pagare allo Stato e non potranno portare in detrazione (almeno così prospetta il decreto) basterà aumentare di pochi spiccioli altri servizi come, per esempio, i bonifici o i costi nascosti nei conti correnti per recuperare almeno in parte quello che sborseranno. E chi paga? I correntisti, naturalmente, che comunque non vedranno di certo aumentare gli interessi sui loro conti correnti.

Poi c’è l’aspetto più tecnico-politico. Chi fa credito si avvale dei rialzi dei tassi di interesse decisi dalla Bce per combattere l’inflazione. Chi, invece, presta soldi alla banca con il versamento del proprio risparmio sul conto corrente non usufruisce di questo meccanismo. Una vera e propria beffa. Le autorità monetarie nazionali ed europee si sono ben guardate dall’assumere un provvedimento che equiparasse la remunerazione dei prestiti e dei depositi in caso di variazione in aumento/diminuzione dei tassi di interesse. Così la giustizia del mercato è andata a farsi benedire. E sono arrivati i grandi profitti delle banche.