Migliaia di docenti protestano in tutta Italia, da Torino a Palermo, contro il declino degli atenei e della qualità della ricerca. L'Italia investe sempre meno, mentre una nuova indagine rivela il divario abissale tra Nord e Sud

È in corso in tutta Italia la “Primavera dell’università”, la protesta organizzata dalla Crui, la conferenza dei rettori, che ha chiamato a raccolta migliaia di docenti e ricercatori di 80 atenei italiani. Una giornata di mobilitazione, da Torino a Palermo, contro il declino degli atenei e della qualità della ricerca. L’iniziativa è dedicata alla memoria delle 13 studentesse Erasmus, tra cui sette italiane, che hanno perso la vita nel tragico schianto del bus in Spagna.

CONTRO IL BLOCCO DEGLI SCATTI
Nelle facoltà, dove l’attività didattica oggi non si è fermata, si sono svolti incontri, tavole rotonde e dibattiti, per lanciare un allarme sul rischio di perdita di competitività internazionale degli atenei italiani. E chiedere al governo maggiori investimenti nella ricerca. Uno degli aspetti cruciali della protesta riguarda il blocco degli scatti di anzianità di ricercatori e docenti per il periodo 2011-2015, con effetti su stipendi, pensioni, trattamento di fine rapporto. «È il segno del declassamento inflitto all’università, perché rappresenta una palese discriminazione ai danni della sua docenza. Almeno tutte le altre categorie del pubblico impiego, nel frattempo, hanno ottenuto almeno il riconoscimento ai fini giuridici degli anni di blocco», spiega Rita Laura D’Ecclesia, docente di Finanza quantitativa all’università La Sapienza di Roma, esponente del Movimento per la Dignità della docenza universitaria, che ha partecipato alla mobilitazione.
I NUMERI DEL DECLINO
Per dare sostanza alle proprie rivendicazioni, la Conferenza dei rettori (Crui) snocciola alcuni dati significativi: anzitutto, l’Italia spende troppo poco per l’università. Per farsi un’idea, l’investimento per abitante a Singapore è pari a 573 euro, in Corea del Sud 628 euro, in Giappone 331 euro, in Francia 303 euro, in Germania 304 euro, mentre in Italia la miseria di 109 euro.

Inoltre, il nostro Paese ha il numero di laureati più basso d’Europa: solo il 17 per cento, contro il 42 per cento del Regno Unito, il 32 per cento della Francia e il 33 per cento della media dei Paesi Ocse. E ancora, l’Italia ha applicato l’austerity anche agli atenei: ammontavano a 7.485 milioni di euro i fondi pubblici nel 2009, mentre nel 2016 sono pari a 6.556 milioni (-9,9 per cento). Il confronto con i nostri vicini è impietoso: in Francia i fondi pubblici sono cresciuti del 3,6 nel periodo 2010-2013, in Germania addirittura del 20 per cento.

Dati sconfortanti, confermati dal rapporto annuale della Fondazione Res, dal titolo “Università in declino” (Donzelli editore), a cura di Gianfranco Viesti: meno studenti, meno docenti, meno dottori di ricerca. In sostanza, 130mila studenti in meno su un milione e 700mila negli ultimi cinque anni; 10mila docenti e ricercatori in meno su 60.500 dal 2008 al 2015; infine, 5mila dottori di ricerca in meno negli ultimi cinque anni. Con un divario abissale tra Nord e Sud. Eppure, nonostante crisi e sottofinanziamento, l’Italia si colloca all’ottavo posto tra i paesi Ocse e davanti alla Cina per quantità assoluta e qualità della produzione scientifica.

I DOCENTI: STOP AL VQR
Come testimonia la protesta di oggi, il mondo dell’università intende reagire al declino, chiedendo innanzitutto più soldi. Di recente, un gruppo di 69 scienziati, capofila il fisico Giorgio Parisi, ha lanciato una petizione online per invitare l’Unione europea a fare pressione sul governo italiano affinché finanzi adeguatamente la ricerca, portando i fondi a un livello superiore a quello della pura sussistenza. Finora l’hanno firmata in più di 68mila.

La mobilitazione di oggi coinvolge in primo luogo i docenti: come migliaia di suoi colleghi, la professoressa D’Ecclesia si astiene dal contribuire con le proprie pubblicazioni alla Valutazione della qualità della ricerca (Vqr).

In pratica, non conferisce le proprie ricerche nel database che serve a misurare la qualità degli atenei, incidendo sulla distribuzione delle risorse ai dipartimenti da parte del Miur. «Come è possibile chiederci di contribuire alla valutazione del nostro ateneo per il periodo 2011-2014, proprio per gli anni che il governo ha voluto cancellare nella nostra carriera?», aggiunge D’Ecclesia, che punta il dito contro le discriminazioni: «A essere penalizzati sono soprattutto i ricercatori e  i docenti più giovani, già inseriti nelle nostre università, per i quali l’effetto del blocco ha durata più lunga», conclude la professoressa: «La discriminazione riguarda in prospettiva anche i giovani laureati, che dovrebbero poter aspirare concretamente anche a proseguire i loro studi, e anche coloro che dovrebbero poter accedere, senza disparità di censo, a una buona formazione universitaria».

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