Lello Analfino: «Ragazzi attenti, non seguite i cantanti che inneggiano alle mafie»

Irriverente e guascone, il cantautore siciliano, leader dei Tinturia, ha inventato un genere tra pop, rock, ska, rap, reggae e folk. “Ma ora voglio uscire dalla mia comfort zone”

«Pippo Baudo, Garibaldi e Goethe/ Sciascia, Pirandello e Camilleri/ Sono passati terremoti e frane/ I poveretti c’hanno i macchinoni/ Le facce dei politici ruffiani/ L’abusivismo, i vincoli e i condoni». È diventato un inno la canzone “92100”, che si intitola come il codice postale di Agrigento. La città di Lello Analfino, 49 anni, il cantautore irriverente e guascone che insieme alla sua band, i Tinturia (che in dialetto vuol dire “monelleria” o anche “pigrizia”), da metà anni Novanta porta in giro per l’Italia un genere musicale che lui definisce “sbrong”: un mix tra pop, rock, ska, rap, reggae e folk. Sei album e tanti concerti, molti dei quali fuori dai confini della Sicilia. La canzone “92100” è la sintesi efficace di questa terra dei paradossi, che condensa come nessun’altra sublime e osceno, onestà e illegalità, coraggio e criminalità.

«Devo molto ai siciliani: mi hanno esportato come un prodotto regionale», ironizza Analfino da casa sua a Palermo, su Zoom, barba brizzolata e sorriso sincero. Tra i conterranei affascinati dal suo talento due non passano inosservati: Salvo Ficarra e Valentino Picone. «Il loro primo film, “Nati stanchi”, l’hanno scritto ispirandosi alle mie canzoni. Questo mi salda a loro in maniera irreversibile», sottolinea il cantautore, che ha composto anche il brano “Cocciu d’amuri” per il film “Andiamo a quel paese” del duo comico, grande successo di qualche anno fa. Un sodalizio di lunga data: prima di questa intervista Lello e Salvo hanno trascorso la domenica sotto lo stesso ombrellone sulla spiaggia di Mondello, in una pausa delle riprese della seconda stagione di “Incastrati”, la serie tv Netflix firmata Ficarra e Picone. «Non sono mai cambiati: li ho conosciuti quando andavano nei locali per centomila lire a serata. Oggi, che sono quello che sono, restano identici. Avrebbero potuto trasferirsi altrove, invece sono rimasti in Sicilia e hanno fatto crescere qui i loro figli, con tutti i problemi che possono avere i nostri ragazzi», prosegue Analfino.

Anche lui ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza ad Agrigento, prima di spostarsi a Palermo per frequentare la facoltà di Architettura, laureandosi nel 2004. La madre Giugia, vezzeggiativo di Gerlanda, gli ripeteva: «Chi ha fari cu ‘sta musica?», preoccupata per l’incerto futuro artistico del figlio. «Ero molto pigro, mi piaceva fare casino e la mia grande passione, unica e grande, era ed è la musica», continua il cantautore, che prima si definisce autodidatta e poi ammette che il suo primo maestro di pianoforte fu Franco Finestrella, l’autore della canzone “Nicuzza Duci”, caposaldo della musica folk siciliana. «A mia madre il maestro disse: “Non è cosa di studiare musica, lei perde tempo”. E aveva ragione perché la musica non volevo studiarla ma la volevo fare», continua Analfino. Ironia della sorte, diversi anni dopo il cantautore ha interpretato “Nicuzza Duci” in uno show su Canale 5, facendola uscire dai circuiti folk.

Se vuoi fare il cantautore non è facile vivere nella provincia siciliana, oggi come ieri. E la gavetta rischia di allungarsi a dismisura. «Come diceva Pirandello, Agrigento è una città bellissima piena di difetti, isolata dal resto del mondo», afferma Analfino: «Questo ha influito anche sulla mia carriera: quando ho cominciato con i Tinturia partivamo in sei, in treno, per suonare a Firenze, Roma, Benevento. Per arrivare a Milano servivano ventiquattr’ore, nove solo per raggiungere Messina. Non era un viaggio ma un’epopea. Oggi purtroppo non è così diverso».

Malgrado tutto, però, Agrigento e la Sicilia continuano a sfornare talenti. «Quando qualcuno chiedeva ad Andrea Camilleri: “Come mai in una provincia così povera ci sono così tanti scrittori?”, lui rispondeva con il suo vocione: “Perché scrivere non costa niente”.

Qui sono nati Camilleri, Sciascia e Pirandello ma abbiamo sempre un problema con le case abusive e i condoni», aggiunge Analfino, che porta la sua testimonianza personale: «Sono figlio di un imprenditore: mio padre, negli anni Settanta-Ottanta, costruì due palazzi abusivi ad Agrigento. Invece di arrestarlo lo fecero condonare. Scendevano in Sicilia Spadolini o Andreotti e venivano a battere cassa. “Avete costruito in maniera irregolare? E allora condonate”, dicevano. Se avessero arrestato mio padre dopo il primo palazzo abusivo, non credo che ne avrebbe costruito un secondo. C’è stata una mano politica leggera, che ha lasciato fare».

L’intreccio tra politica e criminalità organizzata segna il destino di questa regione. A trent’anni dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio quanto è forte la cultura mafiosa in Sicilia? «È straforte. Bisogna spingere sulle nuove generazioni, attratte da artisti che inneggiano alle mafie, a una vita fatta di soldi e belle donne. Non si tratta solo dei cantanti neomelodici, ma è un fenomeno che trova terreno fertile in quell’ambiente. Quando ero piccolo i miei amici, figli di avvocato e notaio, non ascoltavano la musica neomelodica. Oggi i figli della stessa classe sociale ascoltano quella musica. La cultura mafiosa è innanzitutto il disamore per la terra che ci ospita, il mafioso ama solo i soldi e il potere. Non finisco mai un concerto senza ricordare che, finché Matteo Messina Denaro non verrà assicurato alla giustizia, avremo un gap da colmare nei confronti dei territori più civili».

L’impegno continua, ma Analfino alla soglia dei cinquant’anni ha deciso di cambiare rotta con la sua musica. Di recente è uscito “Mi fai stare bene”, il singolo che anticipa il nuovo album da solista senza i Tinturia, dal titolo emblematico “Punto e a capo”, in uscita il 9 settembre. I suoni elettronici e la scelta dei testi in italiano segnano l’approdo al pop. «Non voglio svincolarmi dalla cultura siciliana ma uscire dalla mia comfort zone. Sono abituato alla gente che mi applaude perché mi conosce. Non mi basta più, voglio tornare a suonare in un pub con trenta persone. O la va o la spacca», aggiunge.

Con il passaggio alla maturità anche i sentimenti cambiano. Cos’è l’amore a cinquant’anni? «È la consapevolezza di aver vissuto una vita dissoluta, fatta di ubriacature, di droghe anche se leggere, di nottate. E rendersi conto che la vita si trasforma. L’amore non è guardare e bramare ogni donna, ma meritare ogni giorno quella che ami, che hai capito che ti ama. Come dice Piero Pelù: “L’amore è il mio corpo che cambia”».

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