«Già arrivare viva alla fine di questo mandato sarà un grandissimo successo». Virginia Raggi, annunciando che non si sarebbe mai e poi mai candidata un’altra volta alla guida del Comune di Roma, è stata facile profeta. Perché sono in tanti, oggi, ad affermare che vedere la sindaca grillina arrivare a fine consiliatura nel 2021 sarà davvero un miracolo.
Dopo il caso di Raffaele Marra, l’ex braccio destro finito agli arresti nel dicembre 2016 per corruzione insieme all’immobiliarista Sergio Scarpellini, dopo il rinvio a giudizio per falso della stessa Raggi per la nomina del fratello di Marra, l’inchiesta della Procura e dei Carabinieri del Nucleo investigativo della Capitale sullo stadio della Roma a Tor di Valle investe di nuovo i Cinque Stelle. Con il rischio di terremotare una giunta sempre più debole, fiaccata dai deludenti risultati elettorali (l’“effetto Raggi” ha provocato un’emorragia di consensi nei due municipi romani dove si è votato due domeniche fa) e dall’assenza di risultati nella gestione della Città Eterna, che ormai pure i simpatizzanti più ortodossi non esitano a descrivere come «allo sbando più totale».
Di più. Stavolta lo tsunami giudiziario colpisce non solo l’enclave pentastellata che guida la Capitale, ma - politicamente - anche i vertici del movimento nazionale. Già Paolo Ferrara, indagato per corruzione, è capogruppo dei Cinque Stelle in Campidoglio e un pretoriano della Raggi, ma soprattutto l’avvocato Luca Lanzalone, il presidente di Acea messo dai pm agli arresti domiciliari per presunti rapporti corruttivi con l’imprenditore Luca Parnasi, non solo è il sindaco-ombra di Virginia da un anno e mezzo, è anche stato scelto come “badante” della sindaca proprio dai pezzi da novanta del Movimento.
Un “commissario straordinario” individuato in primis dal neo ministro alla Giustizia Alfonso Bonafede, che nel gennaio del 2017 lo segnalò alla Casaleggio come il Mr. Wolf che avrebbe risolto i problemi della Raggi orfana del suo braccio destro (Marra fu arrestato per corruzione a fine 2016); ma poi appoggiato senza se e senza ma anche da Riccardo Fraccaro, oggi a capo del dicastero per i Rapporti con il Parlamento e la “Democrazia diretta” e da Luigi Di Maio, da sempre principale sponsor di Virginia e ammaliato dalle capacità professionali di Lanzalone: sono stati proprio Gigi e Davide Casaleggio a dare l’ok definitivo affinché il legale - da semplice consulente - fosse promosso a capo della più importante azienda romana.
«Chi ha sbagliato pagherà», ripete ora Virginia, non commettendo lo stesso errore di qualche mese fa, quando spergiurando disse davanti alle telecamere che il suo ex vice capo di gabinetto Marra finito a Rebibbia, che lei stessa aveva promosso due mesi prima a capo del Personale del Campidoglio, fosse «solo uno dei 23 mila dipendenti del Comune di Roma».
Nemmeno adesso, però, la sindaca ammette che possa aver commesso anche lei qualche passo falso: se le vicende giudiziarie della storiaccia dello stadio non la toccano direttamente, è un fatto che - ancora una volta - la Raggi abbia regalato fiducia incondizionata a chi, probabilmente, non la meritava. Mettendo la città di Roma nelle mani di un avvocato di Genova che secondo il procuratore aggiunto Paolo Ielo era al soldo non degli interessi pubblici della Capitale, ma di un’associazione a delinquere guidata dal costruttore Parnasi, da cui Lanzalone avrebbe ricevuto circa 100 mila euro tra utilità e consulenze in cambio di un iter rapido per il via libera al progetto dello stadio di Tor Di Valle.
È evidente che Lanzalone, come Marra, non è un dipendente qualsiasi. Ma un legale che nel corso di un anno e mezzo ha assunto in Campidoglio enormi poteri. Prima come mediatore dell’affaire dello stadio, poi consigliere ufficiale della sindaca (e nemico giurato dell’assessore all’Urbanistica Paolo Berdini, l’architetto lo ha definito in un libro «il sindaco vicario della città»), l’avvocato venuto dalla Liguria è stato difeso strenuamente dalla Raggi per mesi. Anche davanti agli attacchi dell’opposizione, che hanno chiesto a che titolo un esterno si occupasse della vicenda, delicatissima, dell’arena della Roma.
A fine 2017, ottenuto dal Consiglio comunale a trazione pentastellata il via libera al progetto caro pure a Beppe Grillo («sarà uno stadio fatto con criteri che da queste parti non hanno mai visto, e se ne dovrà occupare un costruttore e non un palazzinaro», spiegava il garante del M5S), le quotazioni di Lanzalone salgono alle stelle. L’avvocato prestato alla causa dei Cinque Stelle non solo viene promosso numero uno della multiutility dell’acqua e dell’energia, ma diventa consigliere privilegiato della Raggi per questioni di ogni ordine e grado.
Dall’Atac all’Ama, dalle nomine interne alle strategie sulle società controllate. Vicinissimo all’assessore al Bilancio Gianni Lemmetti (la coppia aveva lavorato insieme a Livorno realizzando con successo il concordato preventivo per salvare l’azienda locale dei rifiuti), Lanzalone coltiva rapporti sempre più stretti con Bonafede (è il primo a portarlo alla corte di Grillo e Casaleggio nel 2016, quando chiede al toscano di trasformarsi in cacciatore di teste e trovare manager per la disastrata azienda dei rifiuti), con Stefano Buffagni, il “Luca Lotti” del movimento, e soprattutto con Di Maio, tanto da essere indicato da qualche giornale come possibile successore di Claudio Costamagna alla Cassa Depositi e Prestiti.
«Chi ha sbagliato pagherà», ripete come un mantra la Raggi, come se non fosse stata lei a consegnare a Lanzalone le chiavi dell’Acea e dei dossier più sensibili del Comune. Impassibile di fronte alle condizioni della città (dalle buche ai bus che prendono fuoco, dalla monnezza alla cura del verde, dagli appalti non assegnati alle promesse, infinite, non mantenute, la risposta di Virginia è sempre la stessa: «È colpa delle giunte precedenti, vedrete i risultati tra un po’»), l’inchiesta sullo stadio è altra stazione della Via Crucis personale della sindaca. Un’onta e un paradosso, per chi non voleva le Olimpiadi perché temeva la corruzione dei «vecchi potentati che vogliamo sconfiggere», ma l’inchiesta sullo stadio forse non sarà la tappa finale della sua parabola: assai difficile che la sindaca decida di dimettersi, e improbabile che la spingano al grande passo i vertici del Movimento, appena arrivati al governo del Paese e consapevoli che un rovescio in Campidoglio rischia di essere per il partito un colpo durissimo, esiziale.
C’è un altro appuntamento, però, che alla Casaleggio Associati hanno segnato in rosso sul calendario: l’inizio del processo per falso alla Raggi, che dovrebbe cominciare il 21 giugno, davanti al giudice monocratico. La procura di Roma ha rinviato a giudizio il sindaco lo scorso settembre, con l’accusa di aver dichiarato il falso ai dirigenti dell’anticorruzione: dopo che l’Anac di Raffaele Cantone aveva segnalato - di fronte alla promozione di Renato Marra, fratello di Raffaele, a capo del Dipartimento del Turismo - il rischio evidente di un conflitto di interessi, Virginia per proteggere il suo consigliere spiegò che era stata lei, e non Raffaele, a decidere in piena autonomia lo scatto di stipendio (e di carriera) del congiunto Renato.
Una balla sesquipedale, smentita dalle conversazioni trovate dai pm di Roma nella chat su Telegram tra Raggi e Marra: «Raffaele, questa cosa dello stipendio mi mette in difficoltà, me lo dovevi dire», scrisse la prima cittadina, che aveva letto sui giornali dettagli sull’aumento del salario di Renato di cui era del tutto ignara. Se la bugia sia o meno reato, lo decideranno i giudici. Ma se Virginia fosse condannata in primo grado, con il rito immediato, la sua giunta rischierebbe davvero di saltare. Secondo il Codice di comportamento dei Cinque Stelle Virginia si dovrebbe dimettere all’istante. «Se non lo facesse», ha spiegato lo stesso Fraccaro, che è anche componente del collegio dei probiviri «alla Raggi e alla sua giunta sarebbe tolto il simbolo del Movimento».
Chissà se ora Beppe Grillo si è pentito. Ripensando quando, all’indomani degli arresti del consigliere Marra, decise di pubblicare sul suo blog un post nel quale dava il benservito definitivo alla sindaca che aveva lavorato nello studio di Cesare Previti. Il comico lesse il testo accorato a tutti i capi del Movimento, ma alla fine Davide Casaleggio gli consigliò vivamente di soprassedere. E di pazientare: «Vedrai, la commissariamo con gli uomini migliori, si riprenderà», gli dissero. Un mese dopo Lanzalone faceva il suo ingresso trionfale come salvatore della Patria.