Regista di grande onestà e attenzione, innamorato delle persone e delle loro storie, Gianfranco Rosi con il suo documentario “Fuocoammare” ha conquistato la Berlinale

Per il suo nuovo documentario dopo il Leone d’oro vinto con “Sacro GRA”, Gianfranco Rosi ha seguito il proprio consueto metodo di lavoro. Una lunga preparazione e ambientazione, l’incontro con una comunità, l’identificazione di alcuni personaggi, mesi di riprese una volta resosi, in certo modo, invisibile alle persone filmate. Lo stile è quello del cinema diretto: nessuna voce over, nessuna musica.

Per più di un anno il regista ha vissuto a Lampedusa, cercando di assimilare il quotidiano di una realtà che al pubblico arriva per lo più in forme superficiali e sensazionalistiche. Come nel film precedente, dal luogo vengono isolati alcuni personaggi e le loro storie, orchestrate poi nel consueto montaggio alternato (di Jacopo Quadri). Tra tutti spicca Samuele, dodicenne che vagabonda tra scuola e campagne, tiratore di fionda con l’occhio pigro, figlio di pescatori ma sofferente di mal di mare, e anche un po’ ipocondriaco. Intorno a lui ruotano lo zio, la nonna, e sull’isola altre figure: un sub in cerca di ricci, il deejay della radio locale, una donna devota di padre Pio che gli richiede brani musicali.
[[ge:rep-locali:espresso:285181364]]
E soprattutto il medico del pronto soccorso, che cura le piccole emergenze del paese ma anche gli arrivi in massa di profughi sulle coste dell’isola. La sua confessione davanti alla macchina da presa, ripreso di sbieco davanti al monitor, è un momento altissimo del film, privo di ogni retorica.

In una Lampedusa senza sole seguiamo i personaggi, le loro attività, i momenti di pausa, lo scorrere di un tempo quasi da fiaba. Su questo sfondo irrompe la drammaticità degli sbarchi, con le stive piene di corpi, le persone disidratate, i morti. Alla logica sensazionalistica, Rosi contrappone l’affetto minuto per i personaggi. Uno dei vantaggi che il cinema ha sul giornalismo è in effetti quello della vicinanza diretta, del prendersi il proprio tempo e il proprio spazio, andando oltre il reportage.

Regista di grande onestà e attenzione, innamorato delle persone e delle loro storie, Rosi pecca semmai di troppo pudore. Il suo racconto, che evita ogni scorciatoia e ogni enfasi, sembra mancare dell’energia decisiva, non trova un’alternativa estetica all’altezza della tragedia che sfiora, uno sguardo nuovo. Ma forse era chiedergli troppo.



LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il pugno di Francesco - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso