A trentancinque anni dall'uscita del libro-cult di Stefano Benni, arriva il film di Massimo Martelli. Che qui racconta come si sono trasformati i personaggi-tipo della saga di Benni. E perché, sotto spoglie televisive, siamo ancora una gigantesca provincia

Dallo Scrondo alla Luisona del Bar Sport passando per la strage di Bologna, una missione kenyana con Fabio Fazio, Cannes e Cologno Monzese senza perdersi. Massimo Martelli, 54enne bolognese, è un regista e autore sicuramente eclettico. Portare al cinema "Bar Sport", libro cult di Stefano Benni 35 anni dopo la sua uscita, è l'ultima ambiziosa tappa di una carriera, tra cinema, teatro e tv, iniziata con programmi come "Matrioska" o "Lupo solitario" su Italia Uno, ormai un quarto di secolo fa. È il suo quinto film: il primo, premiato a Cannes, fu nel '92: "Per non dimenticare" sulla strage di Bologna.

Il Bar Sport ormai è solo un luogo della memoria italiana?
"No, esiste ancora ma in provincia e spero che il mio film faccia tornare a tutti, soprattutto in città, la voglia di quel che accade lì: un posto dove si vanno a sentire o raccontare storie, vere o false che siano".

Per fare questo adesso c'è la tv.
"Vero: quello che era il bar sport, il teatrino dove la gente andava a esibirsi appagando il proprio bisogno di platea, oggi è diventato il palinsesto. La televisione ha rapito il bar sport e ci ha tolto qualcosa. Perché il bar sport era creativo: chi va ancora al bar oggi racconta l'ultima che è successa a Briatore o a quelli del "Grande Fratello", racconta le vite degli altri e non più la sua".

Non le sembra di vivere in un gigantesco Bar Sport?

"Sì, quando vedo quelle solite dodici facce che trovi in ogni trasmissione. Il "tennico" di Benni, che nel film è interpretato da Claudio Bisio, cioè colui che la sapeva sempre più lunga di tutti su qualsiasi argomento dello scibile umano, dalla base del plutonio alla formazione del Genoa scudettato, oggi s'è trasformato nel tuttologo televisivo. Il tizio che vedi alle otto del mattino a parlare di cucina su un canale e lo ritrovi la sera a "Matrix" a occuparsi del delitto del momento".

Sono gli stessi che strillano "non siamo mica al Bar Sport qui!".
"Infatti in un bar sport non li farebbero nemmeno entrare, li troverebbero estremamente noiosi e nessuno se li filerebbe. Il "tennico" veniva spernacchiato, questi riescono a passare per esperti".

Secondo Benni, il Bar Sport è estinto.

"Ci sono altri tipi di bar sport che Stefano non frequenta. Se parliamo di un momento poetico, ha ragione: quel bar sport è finito, il libro è stato premonitore. E il mio film fa capire quant'era meglio prima: prima cioè degli sms e di Facebook. Ma io non sono mai stato un nostalgico: anche Facebook è un bar sport, purché sia un veicolo per darsi poi appuntamento e guardarsi in faccia".

Difficilmente Benni la seguirebbe su questa strada...
"Se trovassi Stefano su Facebook sarebbe clamoroso: vorrebbe dire che la sinistra vince le elezioni. Ma quel che dico io è successo, se ci pensa, per il movimento di Pisapia, nato sulla rete, o per quello degli studenti. Perché poi sono andati in piazza, dove ho rivisto gente che non usciva di casa da una vita. Se invece credi di aver vissuto e frequentato una persona solo perché ci hai chattato, allora sì, il pericolo è grande. Ritornare a vivere gli spazi è l'unica possibilità di salvezza".

Per esempio lo spazio del cinema?
"Certo: lo stesso film puoi scaricarlo pirata sul Web tre giorni dopo l'uscita, ma andare in sala è una scelta di socialità e condivisione. Io amo il calcio e mi diverto di più a vedere le partite in compagnia al bar che non sul divano da solo. In provincia quel piacere c'è ancora, in città meno, e auspico un ritorno al gusto di ritrovarsi in piazza a chiacchierare, divertirsi e litigare. È da un pezzo che abbiamo toccato il fondo, quindi prima o poi risaliremo".

Lei è un autore televisivo che parla male della tv: sarà anche colpa vostra o no?
"Sì, ma in parte. Perché ora non esistiamo più, finché almeno non ci chiamano. Mi spiego: prima un autore andava dal direttore di rete a presentare la sua idea, ora nemmeno viene ricevuto. Fanno tutto con gli agenti dei personaggi tv e con le case di produzione: comprano il format e il conduttore, e solo dopo chiamano noi. E poi un autore fa un bel programma se riesce a riunire i comici, ma se loro non si fanno più riunire, come fa? Non ci sono più programmi che riuniscano tutto il meglio della comicità".

Questione di costi?

"No, è che sono diventati tutti one man show, tutti coltivano il proprio orticello, sono presenzialisti di se stessi. La satira è diventata una guerra tra poveri: ognuno vuole avere il timbro doc, essere il depositario unico della materia. Guardi la disputa tra "Il Misfatto" e il nuovo "Male". È triste".

Uno che ha lavorato a "Scherzi a parte" non può certo ambire al marchio doc.
"Eh, sapesse quante me ne dicono... Ma ho fatto anche "Per non dimenticare" sulla strage di Bologna, devolvendo gli introiti all'associazione dei famigliari delle vittime, "Pole pole" con Fazio e "Muzungu" con Giobbe Covatta per l'Amref. La mia coerenza la pago lì, gli altri si guardino a casa loro. Non rinnego nulla e non appartengo a congreghe e parrocchiette".

Però anche lei può vantare una censura nel curriculum, suvvia.
"Ci chiusero "Matrioska", ma mica perché c'era Moana Pozzi: si figuri se Berlusconi, alla luce di quello che poi la storia ha raccontato, era uno che si scandalizzasse per una donna nuda. Avrebbe spogliato anche tutte quelle di "Drive in". Ci chiusero perché avevamo messo lo Scrondo, il ributtante mostro creato da Disegni e Caviglia, a fare cosacce dietro al coro di Comunione e liberazione".

Da quanto non lavora in Rai?

"Dai tempi di Freccero ed è ignobile che stiano a cercare direttori di rete quando lui è lì a Rai4: uno che sa benissimo come fare una sana tv generalista portando ascolti e mettendo anche Paolini in prima serata. Perché di buona tv comunque se ne riesce a produrre con successo, nonostante tutto. Dandini, Guzzanti o Fazio, per esempio. Ecco, Roberto Saviano è un ottimo esempio di bar sport: racconta una storia per un quarto d'ora e la gente resta incollata alla tv".

Chi la fa ridere?
"Checco Zalone. Katia e Valeria di "Zelig". Marcoré, i Guzzanti. Mi fermo, se no devo citare solo "anziani". Prima un comico arrivava in tv dai teatri, adesso fa una gag di cinque minuti in tv e poi va al teatro a dilatarla in uno spettacolo di un'ora e mezza. Non dovrebbe funzionare così".

Il suo Bar Sport, fedele all'ambientazione originale, non ammicca all'attualità: è stato difficile resistere alla tentazione?

"È per questa ragione che credo di aver fatto un film coraggioso: nel senso che non rincorre una moda passeggera ma resta fedele a quella Bibbia dell'umorismo che è il libro. Sarebbe stato facile trasformare il playboy da strapazzo, Teocoli, in un politico. Ma non volevo tradire il linguaggio di Benni, strizzare l'occhio all'attualità avrebbero portato il film in un mondo che non è quello di Stefano e si sarebbe sentito usato".

Invece?

"Invece il film gli è piaciuto e mi ha fatto il più bel complimento dicendo che non è volgare. E Stefano considera volgare l'80 per cento di ciò che lo circonda.".

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