Era il Paese dell’accoglienza. Ora i migranti sono concentrati nel Negev e si preparano espulsioni di massa

epa04897046 African migrants are released from the Israeli Holot Detention facility located near the Israeli-Egyptian border, southern Israel, 25 August 2015. Israel's Supreme Court ruled and ordered on 11 August the release of about 1,200 of the 1,700 asylum seekers that were being held in the Holot Detention facility within 15 days. EPA/ABIR SULTAN
In un luogo sperduto di Israele, ai margini dell’antica terra del Regno di Giuda, lungo la leggendaria strada per Shur, nella biblica Qadesh-Barnea’, stazione dell’Esodo del popolo ebraico, c’è Holot: centro di detenzione per immigrati clandestini provenienti dall’Africa. È un istituto maschile che attualmente ospita 970 persone, eritrei e sudanesi arrivati attraversando il Sinai. In Israele, prima che al confine con l’Egitto venisse eretta la barriera di separazione, sono entrati illegalmente circa 50 mila persone di origine africana. Si stima che 38 mila “invisibili” vivano e lavorino nelle periferie delle grandi città da Haifa a Eilat, spesso in condizioni di povertà e degrado. Obbligati in un limbo, con la paura di essere arrestati e spediti nel centro di detenzione.

Da Gerusalemme a Holot occorrono due ore e mezzo di viaggio in auto, passando le verdi colline dei vigneti di Latrun e poi percorrendo il Negev dalle dune di sabbia rossastra. Imboccata la strada 40 che scende verso il golfo di Aqaba, il paesaggio lunare è movimentato dai villaggi beduini, dalle oasi dei kibbutzim e dalle tende da campo dei soldati in addestramento. Transitando nella numero 211 compaiono cartelli di divieti: siamo in area militare. I corazzati Merkava dell’esercito israeliano avanzano sui crinali, per poi sparire in una coltre di polvere. E infine, svoltando a sinistra nella 9808, in questo ultimo lembo di Israele, vivono militari, criminali, guardie penitenziarie e loro, gli immigrati.

Il reticolato perimetrale del centro di Holot è limitrofo al muro del carcere di Saharonim. All’interno, ben visibili, ci sono edifici numerati a un solo piano. Ogni modulo può ospitare fino ad un massimo di 10 persone. Nel compound ci sono distributori automatici, cliniche mediche, biblioteca, aule e caffetterie. Assistenti sociali garantiscono trattamenti individuali e terapie di gruppo. Il cineasta Avi Mograbi vi ha fondato un laboratorio teatrale.

La porta principale di Holot è una grande volta in cemento armato che sovrasta una cancellata. Nelle buie stanze dell’edificio i tornelli ruotano al passaggio dei profughi. Gli “ospiti” di Holot sono liberi di poter uscire, ma devono rimanere in zona. Prendono anche un giornaliero di pochi shekel e a loro è consentito lavorare - retribuiti - per un massimo di 10 giorni al mese. L’ingresso all’interno del centro è vietato alla stampa, ma è possibile incontrarli nel piazzale fuori dalla recinzione, uno scarno punto di convivio. Alla vicina fermata del bus sono indicate solo tre destinazioni, la più lontana è Be’er Sheva.

Aperto nel dicembre 2013, secondo le direttive del governo di Netanyahu il centro è destinato a chiudere entro il prossimo marzo. Per gli “indesiderati” si aprono così due strade: l’espulsione o il carcere in Israele.

La notizia ha scatenato un aspro dibattito interno allo Stato fondato, nel ’48 da Ben Gurion, sul principio dell’accoglienza. Questo è un Paese che nel corso dei decenni ha aperto le braccia a gente proveniente da mezzo mondo, dalla Russia all’Estremo Oriente. Ora le cose sono cambiate.

Il piano dell’esecutivo a guida Likud è entrato in vigore il 1 gennaio 2018. La seconda fase non riguarderà bambini, anziani, malati, genitori con minori (5 mila sono nati in territorio israeliano) e vittime della tratta. Esentati ma solo momentaneamente anche i richiedenti asilo: oltre 12 mila le domande presentate dal 2013.
Tanti, in questi ultimi tre anni, hanno accettato “volontariamente”, dopo aver ottenuto in cambio una piccola somma di denaro, di venire trasferiti in un paese africano diverso da quello di provenienza. Gli accordi di scambio sono poco trasparenti in particolare con due stati africani: Ruanda e Uganda. Sulle condizioni di coloro che tornano in suolo africano cala poi un profondo silenzio, tra voci di rapine, omicidi e storie di chi avrebbe speso i 3.500 dollari di “buona uscita per raggiungere finalmente l’Europa, pagando altri trafficanti di esseri umani.

Quando nella primavera del 2015, per la prima volta, giungemmo a Holot fu l’occasione per conoscere Adam e Faisal, entrambi provenienti dal Darfur, in fuga dalla loro casa e dal genocidio. Maledicevano la decisione di aver deviato verso il Mar Rosso invece di puntare al Maghreb. E non erano intenzionati a tornare in Africa. Almeno non in Uganda. Oggi, il quarantaduenne Adam e il trentenne Faisal hanno lasciato Holot e altri hanno preso il loro posto. Si capisce che sono in Israele da tempo perché salutano in un fluido ebraico. Alla vista della macchina fotografica però preferiscono non farsi riprendere, schivando l’obiettivo.

Sono sfiduciati ma molto più tenaci dei loro predecessori nel rivendicare il diritto a restare, in quanto rifugiati. In molti hanno trascorso almeno un breve periodo nella comunità africana nei sobborghi di Tel Aviv, e non riescono a capire perché quell’ospitale città non possa diventare anche la loro.

C’è chi per rompere la routine è in attesa di salire sul bus di linea per il vicino villaggio di Nitzana. Tornerà qualche ora dopo con i sacchetti della spesa. Avrebbe potuto tentare di dileguarsi nel nulla, ma non l’ha fatto.
Ali, Hagos e Mohammed ci tengono a sottolineare che sono scappati da dittature spietate, che non sono ladri o assassini. Per arrivare in Israele hanno pagato ai carovanieri beduini cifre superiori ai mille dollari. Lo snodo principale del flusso migratorio è il suk di Khartum, tappa fissa. Qualcuno ha sostato fugacemente in Tunisia e Libia per tentare l’imbarco verso l’Italia. Costi inaccessibili li hanno spinti a intraprendere un “percorso alternativo”, verso Israele. A volte sono disertori dell’esercito di Asmara: come Hagos, eritreo arruolato per il servizio di leva ma poi costretto a indossare la divisa a vita. Ora al posto delle armi impugna un cellulare. Oppure sono sudanesi come Ali e Mohammed, vittime di atavici scontri tribali, in cerca di un’alternativa al ciclo della vendetta e del massacro. Adesso, sotto un fatiscente ombrellone, seduti uno accanto all’altro, si passano il tubicino del narghilè.

Violenza e povertà li hanno spinti ad affrontare pietraie assolate e insidiosi corsi d’acqua, a mettersi nelle mani delle organizzazioni di trafficanti di uomini, “sballottati” tra bande criminali. Sono stati picchiati e tenuti alla fame per giorni. La prospettiva di passare da Holot alle celle della vicina prigione di Saharonim, dove sono già detenuti quasi cinquecento africani, non li spaventa. Aspettano, nella prigione dei dimenticati e raccontano un esodo senza speranza.

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