Per alcuni la strategia di Biden è troppo tollerante con l’aggressività di Netanyahu. Per altri è troppo timida nella fornitura di armi a Israele. Un’incertezza dovuta alle elezioni

La strategia americana è stata sempre ambigua in questo conflitto. Da un lato, ha lavorato per la de-escalation, esortando Israele alla moderazione, dall’altro ha garantito un sostegno «incrollabile», avvertendo l’Iran di «conseguenze gravi» per le ultime azioni. Il risultato è che gli Stati Uniti non hanno usato tutta l’influenza e il potere di cui disponevano, permettendo a Israele di agire a piacimento». Steven Heydemann del Center for Middle East Policy del Brookings Institution e docente di studi mediorientali allo Smith College, a un anno dall’inizio della guerra a Gaza e alla vigilia di una possibile deflagrazione in tutta la regione, riflette così sul ruolo giocato dall’amministrazione Usa.

«Prima Joe Biden, ora Kamala Harris hanno calcolato forse che con un atteggiamento più duro avrebbero perso sostegno alle elezioni. Per questo hanno scelto un approccio permissivo», spiega lo studioso, già vice dello United States Institute of Peace di Washington.

Il prossimo 20 gennaio, il presidente lascerà la Casa Bianca senza aver ottenuto probabilmente nulla di quello che aveva chiesto all’alleato: un impegno a cessare il fuoco e a non cercare lo scontro aperto con l’Iran. Ma per Israele quella di Teheran è una minaccia esistenziale che si concretizza nel sostegno al gruppo militante sciita libanese Hezbollah, come pure nell’armamento di Hamas. Le tensioni con l’Iran e la possibilità di uno scontro diretto non sono mai state così elettriche. Mai così concrete, dopo la pioggia di missili su Tel Aviv dello scorso primo ottobre, preceduta dal bombardamento di primavera.

«Prenditi la vittoria», consigliò Biden al caparbio primo ministro Benjamin Netanyahu, dopo l’attacco di aprile da cui ben si difese, intimandogli di sopprimere l’istinto a dover avere per forza l’ultima parola. Fiato sprecato, gli appelli a limitare le morti civili. D’altronde, Bibi non l’aveva avvisato neanche dell’attacco in Libano in cui fu ucciso il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. «Israele pensa di avere spostato a suo favore gli equilibri nella regione, indebolendo Hamas, Hezbollah e l’Iran. Ma dopo un anno di distruzione ed enorme sofferenza umana che vittoria è?», si chiede Heydemann.

A dodici mesi dal 7 ottobre 2023, il giorno dell’attacco terroristico di Hamas contro Israele – che ha portato alla morte di 1.200 persone, al sequestro di 251 ostaggi (di cui 97 ancora in prigionia, se non deceduti) – la Striscia di Gaza è ormai l’ombra di sé stessa. La furiosa risposta delle Forze di difesa israeliane ha puntato a disintegrare la milizia, lasciando uno strascico terrificante di oltre 41 mila vittime. Tra esse migliaia di bambini. Chi ha ancora gli occhi aperti fa i conti con una catastrofe umanitaria di proporzioni inaudite per la carenza di cibo e risorse sanitarie. Quasi due milioni gli sfollati, inquantificabili le lacerazioni sociali quanto politiche. Nell’immobile attivismo americano che cozza con il flusso di miliardi in aiuti allo stretto alleato.

Eppure il 55% degli statunitensi disapprova le azioni di Israele a Gaza. Biden è riuscito nell’impresa di scontentare tutti, sia chi difende sia chi critica la strategia militare di Netanyahu. Per i primi non ha fatto abbastanza, anzi è colpevole di avere ritardato l’invio di munizioni; per i secondi è stato «Genocide Joe» sin dalle prime manifestazioni pro Palestina, zerbino di Israele e responsabile della tragedia umanitaria. È per questo che abbiamo chiesto un commento a due personalità accademiche di visione opposta.

«L’annientamento della società a Gaza è inaccettabile. Sgomenta il razzismo esplicito e la svalutazione della vita di arabi e musulmani in Palestina e in Libano da parte dei governi occidentali, per non parlare di Israele», dice il professor Ussama Makdisi, esperto di Medio Oriente e professore di storia presso l’Università della California a Berkeley. «Biden non si è impegnato a cercare di evitare tutto questo – continua – non ha fatto niente». Difficile, per lo storico, ipotizzare un cambio di scenario quando nello Studio Ovale siederà un altro commander in chief. «È la politica americana a essere anti-palestinese. Gli Usa pensano di poter costruire un’architettura di dominio in Medio Oriente con Israele al centro, facendo sì che centinaia di milioni di arabi si sottomettano in perpetuo. Non accadrà per sempre». Il problema per lui non è la singola personalità, ma «le strutture anti-palestinesi profondamente radicate. Ci sono enormi quantità di investimenti. Che si tratti di Kamala Harris o Donald Trump, vedrete la stessa politica»

Certo è che il governo Netanyahu probabilmente preferirebbe che il prossimo cinque novembre la spuntasse il leader Maga, pronto ad appoggiare senza esitazione ogni sua azione. Tra i democratici, qualcuno ha persino ipotizzato che Bibi stia rinviando la possibilità di un accordo a Gaza per influenzare l’esito delle elezioni americane. Il presidente in carica non l’ha escluso categoricamente, ma ha ribadito che nessuna amministrazione «ha mai aiutato Israele quanto me». I due leader si conoscono da quarant’anni, non sono grandi amici e si sono spesso confrontati con fermezza. Ma l’appoggio non ha mai vacillato, ieri come oggi. Tanto che all’indomani dell’attacco terroristico di Hamas, Biden si è subito definito «sionista». Dall’inizio dei combattimenti, si ricordano però due occasioni di serio attrito: quando mise in guardia Bibi da un’entrata a Rafah, che avrebbe causato una carneficina, e quando le bombe uccisero sette operatori umanitari della ong World Central Kitchen. Israele non fa «abbastanza per proteggere i volontari», aveva detto in quell’occasione. Un cane che abbaia, ma non morde.

«Quest’anno abbiamo visto le relazioni tra i due Paesi al meglio, in operazioni di combattimento congiunte. Non era mai successo prima». Il professor Chuck Freilich, ex viceconsigliere per la Sicurezza nazionale in Israele, politologo della Columbia University, risponde così quando gli chiediamo un parere sull’amministrazione. «Gli Usa sono stati però troppo ottimisti allo scoppio della guerra, la richiesta di un immediato cessate il fuoco era prematura, come lo era l’inizio di nuovi colloqui di pace verso la soluzione dei due Stati». Per lo studioso infatti «nella migliore delle ipotesi se ne riparlerà in un futuro molto lontano. Dobbiamo cercare nuovi modi per realizzare, se non la pace, almeno una separazione tra israeliani e palestinesi».

Oggi, a un anno dal peggior fallimento di intelligence, Tel Aviv proietta l’ombra lunga della sua potenza, brandendo la testa dei leader avversari. «Un cessate il fuoco non è sempre la cosa migliore. C’è stato il tempo per sconfiggere Hamas militarmente e colpire duramente Hezbollah; due organizzazioni impegnate nella distruzione di Israele. Anche se ci sono ancora dei combattenti, per anni e anni non potranno più minacciarne l’esistenza», sentenzia Freilich.

Una lettura miope, quella che fissa un sistema binario di vittoria e sconfitta, per il professor Ussama Makdisi che invita, piuttosto, a un ragionamento più articolato: «Non si capisce che Hamas e Hezbollah esistono perché le persone sono oppresse. La resistenza a Israele è cresciuta sempre di più nel corso dei decenni perché l’aggressione, la violenza, il razzismo, l’occupazione e la brutalizzazione israeliana sono aumentati».

A un anno esatto da quel 7 ottobre, fa un certo effetto rileggere le parole che il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan disse poco tempo prima. Le ricorda ancora Steven Heydemann: «In un articolo scrisse di essere contento che il Medio Oriente non fosse più una priorità così importante per l’amministrazione perché, sottintendendo grazie anche a Biden, la regione stava attraversando un periodo di calma. C’era quindi più margine per altri interessi globali. Ora si è nuovamente ridotto». Chi entrerà alla Casa Bianca il prossimo gennaio avrà sulla scrivania questo doloroso dossier. «Ancora per un anno almeno – conclude Heydemann – gli Usa dovranno continuare a indirizzare in Medio Oriente le proprie risorse».

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