Antonio Rezza: «Vi faccio ridere ? per inquietarvi»

Una comicità oltre ogni genere. Tra identità multiple  e personaggi assurdi. L’attore  e regista spiega (in coppia con Flavia Mastrella)  la sua strana arte «Fare satira su un male noto è solo una scorciatoia. Noi preferiamo rappresentare un male metafisico»

Tra i talenti che il mondo ci invidia ma non tutti conoscono, perfino tra gli addetti ai lavori, spicca per coerenza e bizzarria il duo Antonio Rezza e Flavia Mastrella, lui attore-performer di irripetibile fisicità, lei artista e autrice degli strepitosi “habitat” multimaterici, tra Melotti e Calder, in cui prendono vita i folli personaggi di Rezza e dei suoi partner.

Appena premiati con un doveroso ma inatteso Leone d’oro alla carriera dalla Biennale Teatro di Antonio Latella, dedicata quest’anno all’arte della performance, Rezza e Mastrella hanno il dono di essere unici e il torto di essere così inclassificabili da sfuggire a una comunicazione sempre affamata di certezze. Nell’ordinato giardinetto dello spettacolo italiano, diviso in aiuole ben definite e difese, sono una felice eccezione, irregolari fino ad essere popolari e insieme semiclandestini. Del resto la critica più attenta li segue da sempre. Il pubblico li adora e consente loro di vivere degli spettacoli, senza chiedere sovvenzioni statali, caso forse unico dalle nostre parti. Mentre i festival, anche di cinema, presentano i loro lavori che a volte sembrano sposare generi consolidati solo per demolirli più allegramente.

Perfino Raitre ogni tanto concede loro salutari incursioni nel palinsesto. Si è appena chiusa la serie “La tegola e il caso”, titolo ispirato all’amato Bruno Munari, ora su Raiplay. Dieci blitz teatrali in case di comuni cittadini romani fra Trastevere e Torrevecchia, il Tufello e Certosa, per testare l’impatto delle loro azioni sceniche a distanza ravvicinata (le fulminee performance vengono da spettacoli storici come “Pitecus”, “Fotofinish”, “Fratto X”, “7-14-21-28”). Ma anche per provare che la loro arte, comica fino allo spasimo e insieme clamorosamente inquietante, non è avanguardia, etichetta fastidiosamente vicina a lobby critiche e potere, ma spettacolo vivo, aperto, problematico quanto accessibile, che non richiede note al testo o manuali d’istruzioni.

«Per fare “La tegola e il caso” ci sono voluti più di dieci anni e quattro diversi direttori Rai, ma noi non abbiamo fretta», esordisce Rezza, abituato da sempre a lavorare su diversi progetti insieme, anzi teorico dell’affanno come spinta propulsiva per il performer («Io corro sulla scena per fuggire al bandolo della matassa, per non darmi tempo di raccontare»). La sfida in questo caso era davvero delicata. Si trattava di entrare con una mini troupe in case di sconosciuti, allestire lo spettacolo, dialogare con gli ospiti, spingendoli anche a cimentarsi in prima persona. E poi sparire. «Fermandosi al massimo un’ora e mezza in tutto per non creare abitudine e complicità. Così chi abita la casa resta se stesso, e anche noi», spiega Rezza.

Programma curioso per un duo abituato a stravolgere anche le certezze più elementari, come si vede in quell’irresistibile brano di “7-14-21-28”, replicato in casa di tre smagate trasteverine, che vede Rezza doppiare in scena, in diretta, sua “moglie” Ivan Bellavista togliendogli voce, volontà e identità fino ad annichilirlo. Ma è vero che recitare in un interno per tre, quattro, a volte perfino un solo spettatore, cambia tutto. Dalla provocazione alla coabitazione, sia pure a tempo limitato?

«La nostra è una curiosità antropologica, forse vogliamo capire, anche se non so ancora cosa di preciso», interviene Mastrella. «L’idea dell’interazione è affiorata in extremis, siamo oppressi dagli stage, ce li chiedono tutti e ne facciamo pochi, sono momenti di incontro sempre interessanti ma oggi ci si sposta sempre più verso una forma didattica, con l’artista trasformato in professore-intrattenitore, e questo ci preoccupa».

Resta il fatto che mentre i teatri chiudono voi aprite le case. Solo un caso? «La nostra indagine è permeata di casualità, secondo la lezione di Bruno Munari», prosegue Mastrella. «I nostri ospiti sono ritratti nella loro essenza, Antonio articola domande inusuali che permettono agli intervistati di rispondere a modo loro senza subire concetti presi in prestito dai media. Così l’incontro devia nella tenerezza illuminando una umanità che ci sembrava scomparsa, persone operose e pensanti che giocano e si danno all’imprevisto. Radicati al senso comune, raccontano con sincerità disarmante la loro parte irrazionale».

Questo per il lato più personale. Ma in tutte le vostre performance c’è sempre una dimensione politica, forte quanto poco esibita. «Certamente», conferma beffardo Rezza. «I teatri oggi chiudono perché si affidano alle logiche vetuste delle sovvenzioni elargite dal Ministero fattorino. Credo che presto chiuderanno anche le case. Diciamo che i teatri stanno a noi come le case allo straniero». E qui ci si aspetterebbe magari una tirata sull’emergenza migranti, ma Rezza non ci sta: «Oggi su questa questione preferisco tacere. Chiaro che è un’idea di massima apertura ma la tengo per me, non voglio averne benefici».

Facile moralismo? Al contrario. L’esigenza di rigore è la stessa che porta il duo a rinunciare ad ogni forma di sovvenzione statale, anzi a battersi contro «la grande menzogna» dell’arte impegnata e sostenuta dall’alto. «L’arte non è fatta per essere la cornicetta dell’infelicità», taglia corto Rezza. Quanto alla satira, finisce in ogni caso per «essere serva» del potere che schernisce. Meglio semmai «togliere potere al potere attraverso l’indifferenza».

Concetti non proprio destinati al successo nell’epoca dei social, ma sicuramente vicini ai criteri seguiti per costruire gli originalissimi spettacoli di Rezza-Mastrella, apparentemente astratti e deliranti, ma impregnati di rimandi più o meno deformati al nostro mondo. Sempre schivando il facile ricatto del riferimento all’attualità.
«La rappresentazione di un male noto è una scorciatoia per arrivare allo spettatore», argomenta Rezza. «Se parlo di qualcosa che tu già conosci in un certo modo ti vengo incontro, il biglietto dovrebbe costare la metà». E ancora: «Noi rappresentiamo un male metafisico, anche se sempre appartenente all’universo umano». Ed ecco la costruzione di spazi scenici, identità multiple, ectoplasmi fantasiosi, personaggi assurdi ma stranamente logici e abitati da conflitti e pulsioni sempre riconoscibili. Facce e voci deformate allo spasimo che parlano - anche - d’amore, soldi, famiglia, lavoro, bellezza, malattia, e intanto corrono a perdifiato, saltano, inciampano, perdono membra e connotati, appaiono e scompaiono dentro le sculture volanti di Flavia Mastrella. Figure che non somigliano a nessuno in particolare ma allignano dentro ognuno di noi.
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Naturalmente dare vita a un universo così personale non spalanca le porte a collaborazioni esterne, tanto più che Rezza si dice «del tutto inadatto alla recitazione, non ho la cassa armonica giusta, non so servire uno stato d’animo, non posso proprio interpretare qualcosa scritto da altri». Eppure qualche nome venuto a cercarlo se lo lascia strappare. Su tutti Guadagnino, Luchetti e Andrej Konchalovskij, che in un primo momento aveva pensato a lui per il suo Michelangelo. Mentre messo alle strette riconosce che accetterebbe solo due ruoli, Frank Zappa, per ragioni di fisiognomica, o Pinocchio. Ma anche con Bertolucci, Cronenberg o Kim Ki-duk lavorerebbe volentieri, purché in un ruolo «molto performativo, come quello di Luca Marinelli in “Lo chiamavano Jeeg Robot”».

Troppo faticoso essere autarchici a vita, o legittima curiosità d’artista, Rezza e Mastrella intanto continuano a fare i loro film folli e diversi da tutto, anche se poi li tengono fermi al montaggio per anni. Come è successo con “Samp”, storia grottesca di un killer matricida al soldo di un gruppo di tangentisti che per sfuggire alle intercettazioni contano le mazzette declinando date chiave della caduta dell’Impero Romano, una scena che da sola varrebbe il film se i suoi autori lo finissero.
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Aspettando di vedere anche “Ipotesi di film su Cristo morto”, opera in bianco e nero serenamente blasfema e forse incestuosa, in parte già girata tra la loro Anzio e Matera. «Come Pasolini e prima di Mel Gibson, quando la città era ancora riconoscibile», dice Mastrella, che però boicotta l’impresa trovando il tema «un po’ facile, e poi non voglio fare pubblicità occulta alla religione». Riconosce Rezza: «È vero, quando lo annunciammo alla Milanesiana, dieci anni fa, la stampa si scatenò, appena nomini Gesù i media spalancano le porte, Cristo tira sempre molto, per questo noi ci tirammo indietro. Anche se il mio Cristo non parla ma urla, dannazione delle orecchie umane».

Un altro film che probabilmente non vedremo mai: come “Pedardo rosso”, libera rivisitazione ipersessuata del “Visconte dimezzato” di Italo Calvino, che spiega perché il performer se la prenda quando qualche cacciatore di antenati lo piazza all’incrocio tra Antonin Artaud e Totò. «Artaud è stato decisivo, anche se non ho mai finito di leggerlo, ma Totò che c’entra?», sbotta Rezza. «Troppi compromessi, dilapidò un talento assoluto. Più che a Totò semmai penso a Buster Keaton, che anche Carmelo Bene preferiva a Chaplin. Oppure a Jacques Tati, per come componeva l’immagine. Anche per noi è sempre l’ambiente che predomina sull’uomo. Tra lo spazio e l’attore, preferiamo lo spazio». E questa, nel cinema italiano, è davvero una cosa che non ti perdonano.

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