Donne in lotta. Donne che dicono no. Donne che fanno cose da uomini, oppure cose che nessun uomo farebbe. Dunque si impongono, cambiano le regole del gioco, trasformano la percezione del mondo. Insomma rifiutano di fare le vittime. Di personaggi così il cinema è sempre stato pieno, davanti e dietro alla macchina da presa. Ai tempi del #MeToo lo scontro però si è radicalizzato. E i film migliori aiutano a vederci più chiaro, rifiutando retorica e schematismi per scovare gesti inattesi e spiazzanti.
Nel programmatico “Dio è donna e si chiama Petrunya”, di Teona Strugar Mitevska, la protagonista fa infatti una cosa semplicissima e clamorosa insieme. Si tuffa nelle acque gelide e fangose del fiume di Stip, in Macedonia, per ripescare la croce che ogni inverno il pope getta dal ponte. Il rito, beneaugurante, è per tradizione riservato ai maschi. Così quando quella giovanottona riemerge stringendo il crocefisso scoppia un putiferio. La folla la assedia, il pope le intima di restituire la croce, lei rifiuta e scappa a casa tremante dove la madre, scoperto il fattaccio dal tg, la aggredisce con una violenza in cui un malinteso senso del sacro si mescola alla peggior cultura patriarcale, quella interiorizzata dalle donne. Ed è solo l’inizio.
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In sala dal 12 dicembre, il bel film della Mitevska, protagonista in questi giorni di una doverosa personale al Torino Film Festival, è il perfetto esempio di un cinema post-femminista che non rifiuta certo l’ispirazione sociale (c’è dietro un fatto di cronaca) ma sa scavarvi dentro con sapienza. Inquadrature caustiche, tono in bilico fra grottesco e mélo, capacità di concentrare conflitti giganteschi in un dettaglio (le operaie che guardano storto Petrunya durante il suo umiliante colloquio di lavoro, schiave e complici insieme dell’odioso capetto, gelano il sangue). In fondo, sembra dire la regista, le cose non sono cambiate molto dai tempi del primo femminismo.
Quei poliziotti macedoni, così rozzi e diretti, quel pope impotente di fronte al vuoto giuridico in cui l’azione di Petrunya lo precipita, rimandano ai maschi protervi e increduli che costellano uno straordinario doppio ritratto in programma sempre a Torino, “Delphine et Carole, les insoumuses” (gioco di parole fra “muses” e “insoumises”, cioè non sottomesse). Al secolo Delphine Seyrig, luminosa attrice di tanti film firmati Resnais, Truffaut, Duras, Demy, Buñuel, e Carole Roussopoulos, “videasta” militante che negli anni 70, con la combattiva Delphine, acquistò la seconda videocamera portatile venduta in Francia («la prima l’aveva comprata Godard») per dare vita a un pionieristico lavoro di controinformazione senza filtri.
Sono anni di scontri, di provocazioni, di lotte aspre e gioiose. Delphine Seyrig trova nel femminismo la chiave della rivolta che cova fin da ragazza; declama in video il libro esplosivo (e allora esaurito) di Valerie Solanas, “SCUM - Manifesto per l’eliminazione del maschio”; firma con altre celebrità come Jeanne Moreau, Catherine Deneuve, Ariane Mnouchkine, Françoise Sagan, Agnès Varda, il manifesto delle 343 donne che dichiarano di aver abortito, uscito sul “Nouvel Observateur” nel 1971, quando si rischiava l’arresto; gira “Sois belle et tais-toi” (Sii bella e taci) intervista a venti colleghe tra cui Jane Fonda che racconta come alla Warner volessero imporle seni finti e sfondarle le mascelle per darle guance scavate. Ma va anche a riprendere, e stavolta è l’unica star a esporsi, le prostitute in sciopero barricate dentro una chiesa di Lione, allestendo con Carole un sistema video allora inedito che le fa comunicare con l’esterno. E tanto peggio se Toscan du Plantier, potente produttore Gaumont, minaccia di bloccare un film se sarà lei la protagonista. Diretto da Callisto McNulty, a dispetto del nome una fascinosa 29enne, “Delphine et Carole” darà una scossa di nostalgia a chi ha l’età.
Ma è inutile rimpiangere i pionieri, anzi le pioniere. Chi vuole provocare oggi ha a disposizione un mezzo molto più potente: la rete. Come insegna la disegnatrice Rokudenashiko, che per sabotare il tabù dei genitali femminili in Giappone ha prima fatto un calco in gesso della sua vagina, poi l’ha riprodotta in mille versioni delicatamente dipinte con varianti spesso geniali (c’è anche la vagina-kayak). Infine ha messo tutti i dati in rete dando modo a chiunque di riprodurre i suoi genitali con una stampante 3D. Troppo per la giustizia nipponica che l’ha processata e condannata. Anche se - bella ironia - proprio così ha incontrato suo marito. Lo racconta la svizzera Barbara Miller in un docu davvero dirompente dedicato a cinque donne contro di altrettanti culti e paesi, “#Female Pleasure”, scoperto a Locarno e riproposto (il 24 novembre) dal MyArt Film Festival di Cosenza. Basterebbe lo straordinario capitolo dedicato alle mutilazioni genitali femminili a raccomandarne la visione a chiunque. Invece per ora in Italia nessuno lo ha comprato. Segnale triste ma certo non inatteso.