Figlio della fame e della fantasia (ancor prima di implorare un pezzo di legno a Mastro Ciliegia, Geppetto sbircia meravigliato dentro al carro dei burattini: la vita in certo modo nasce dalla finzione), il “Pinocchio” di Matteo Garrone è un caleidoscopio di scene da antologia, un catalogo di creature meravigliose e inquietanti (mai effetti speciali furono usati in modo più libero e originale), ma anche un racconto che qua e là stranamente zoppica. Come Pinocchio dopo essersi bruciato i piedi davanti al fuoco.
Troppe suggestioni forse per due ore e poco più, in fondo il Pinocchio di Comencini si era preso sei puntate tv. Troppi i registri da tenere insieme, comico e patetico, picaresco e fantastico, per non perdere un poco il filo dell’emozione. Però che incanto Geppetto-Benigni ipnotizzato da quell’occhio che si spalanca nel ceppo appena sbozzato. Che meraviglia gli starnuti e le lacrime di Gigi Proietti-Mangiafuoco (il teatro dei burattini, e poi il circo in cui si esibisce Pinocchio diventato asino, sono tra le cose più belle del film). Che pena gli inganni e le manfrine del Gatto e la Volpe (Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini). Per non parlare del giudice-scimmione (un travolgente Teco Celio), della malattia e del terrore a casa della Fata Turchina, della morte e rinascita dell’asino gettato in mare.
Momenti memorabili, a contrasto con zone stranamente più opache (su tutte la parte dedicata a Lucignolo e alla scuola). Come se le creazioni visionarie di Garrone imponessero al racconto un’andatura contratta, sincopata, che affida la continuità sentimentale all’ipertrofico commento musicale. Se ne esce sperando in una versione “extended”, magari articolata in puntate di durata variabile e imprevedibile. Come certe serie tv. O quei sogni che con l’universo della fiaba condividono logica e forme.
“Pinocchio”
di Matteo Garrone
Italia-Francia, 124’