Auto d’epoca e storia d’Italia: per Marco Tullio Giordana il passato è una passione

Le vecchie Ferrari comprate coi soldi della nonna. Ma anche i ricordi di famiglia, il padre antifascista, gli anni di piombo riletti senza pregiudizi. Un regista controcorrente si racconta

Marco Tullio Giordana si innamorò del passato quando aveva otto anni. «Era l’inizio del 1959, l’estate prima era morto mio padre e io mi ero preso la Tbc, così passai l’inverno a Crans-sur-Sierre con tutta la mia famiglia», ricorda il regista de “La meglio gioventù”. «Non potevo fare niente. Dovevo star seduto tutto il giorno con una coperta sulle gambe, senza muovermi, prendere il sole e tantomeno sudare».

In Svizzera però c’era qualcosa che quel milanese di buona famiglia non aveva mai visto così da vicino: «Le auto più belle del mondo. Un giorno mi sfrecciò accanto una Cadillac. Una Fleetwood, come avrei scoperto più tardi, quel pipistrellone dalle grandi pinne che appare ne “La rabbia giovane” di Terrence Malick e nel “Cacciatore” di Michael Cimino», dice con la sicurezza del cultore di due mondi non così lontani. «Lì nacque il bisogno quasi terapeutico di sapere tutto su quelle macchine favolose...».

Un po’ come Moravia in sanatorio: solo che lo scrittore ne uscì scrivendo “Gli indifferenti”, mentre il futuro autore di film dedicati alla nostra memoria come “I cento passi” o “Romanzo di una strage”, maturò una passione che anni dopo lo avrebbe spinto addirittura, tra i primi in Italia, a rivendere quelle auto d’epoca comprate per passione.

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«Andò così», ricorda Giordana con qualche riluttanza. «Avevo 14 o 15 anni e convinsi mia nonna, non so con quali parole, a lasciarmi di nascosto una parte d’eredità in anticipo, aggirando la tutela di mia madre. Con quei soldi avrei acquistato vecchie Maserati o Ferrari, che allora costavano pochissimo anche perché non c’era un mercato. L’idea le piacque». Così, con l’aiuto di un amico più grande che faceva il meccanico a Crema, «prima che i sacri furori del ’68 cancellassero tutto», il giovanissimo Giordana scoprì che quelle vecchie fuoriserie nascoste nella stalla iniziavano a crescere di valore. E spuntavano i primi compratori.

«Negli anni Ottanta fu anche un modo onorevole di sopravvivere tra un film e l’altro», si schermisce il regista. Ma non è difficile ritrovare in quella passione, coltivata tutt’oggi con rigore professionale, l’accanimento con cui Giordana ha sempre cercato di scrivere «il grande romanzo del nostro Paese, passione fra l’altro iscritta nel Dna del nostro cinema da ben prima del Neorealismo, perché a capire che la decima musa era lo strumento ideale per costruire l’identità del sentire nazionale, ben al di là della propaganda, furono per primi Mussolini e il suo “braccio” cinematografico Luigi Freddi, anche se pochi amano ricordarsene».

Il passato, visto come un cantiere sempre aperto, ricorre del resto in modo quasi ossessivo anche nel denso libro-intervista appena pubblicato dalle edizioni Gruppo Abele (Marco Tullio Giordana con Andrea Bigalli, “Immaginare la realtà”). Dalla coppia di regime fucilata dai partigiani, i divi Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, antieroi di quella libera rivisitazione del Ventennio che fu “Sanguepazzo”, al progetto di una specie di “meglio gioventù aumentata” che va dal Risorgimento all’ultimo dopoguerra («ma in Italia è raro che qualcuno abbia il coraggio di affrontare imprese simili»), il regista di “Romanzo di una strage” non smette di interrogare ciò che abbiamo alle spalle. Estraendo risvolti sorprendenti anche dalle memorie familiari.

«Paracadutato dagli inglesi in Piemonte, dove avrebbe svolto attività di collegamento fra gli alleati e il Clnai (Comitato di Liberazione Alta Italia), mio padre entrò nella Prefettura di Milano a poche ore dalla fuga di Mussolini verso Dongo», ricorda Giordana. «Come prima cosa sequestrò tutto ciò che vi si trovava trasferendo casse piene di carte nella nostra casa di Crema. Bisognava evitare che i rapporti e le denunce anonime a danno di antifascisti alimentassero la spirale di rappresaglie e vendette che avrebbe insanguinato il dopoguerra. Anni dopo lui e mia madre decisero addirittura di distruggere quei documenti, scelta discutibile anche se comprensibile in quel contesto. Ma in quegli uffici mio padre trovò anche qualcosa di completamente inatteso: l’ultima lettera scritta prima di fuggire, dal gerarca Alessandro Pavolini alla sua amante, l’attrice Doris Duranti. Un foglio appassionato, irrorato di lacrime e anche di sperma, come mia madre mi fece capire con mille circonlocuzioni. Che alla fine degli anni Ottanta arrivò in un certo modo a destinazione quando conobbi Doris Duranti, che aveva scritto un libro autobiografico, e la misi in contatto con mia madre. Inutile dire che ne fu terribilmente turbata».

E qui Giordana, con cortocircuito solo apparente, salta dalle violenze del dopoguerra agli anni della contestazione, che lo riguardano in prima persona, per deplorare «quel mito dell’antifascismo militante che devastò tanti miei coetanei e che nasceva dalla rimozione della guerra civile. Un’esaltazione dei valori militari in tempo di pace semplicemente abominevole. I ragazzi non devono crescere così, bisogna insegnargli la Storia e la pietas, non alimentare il furore ormonale dei 17 anni. E avere comprensione anche per i nemici, i fascisti in questo caso, distinguere tra poveri illusi manipolati, cioè vittime, e veri carnefici».

Ma il problema a ben vedere è proprio lì. Vogliamo davvero sapere, conoscere la Storia? O è meglio adagiarsi nell’oblìo che la società iperconnessa paradossalmente produce in modo quasi automatico? «Temo che generazione dopo generazione vinca sempre la seconda alternativa. Noi preferivamo credere che il pericolo per la democrazia fossero quattro fascisti anziché ciò che di tremendo si tramava nell’ombra. Oggi spesso si liquidano come facili dietrologie i ragionamenti più complessi sugli anni del terrorismo. Colpa anche di una certa cultura, penso per esempio a Rossana Rossanda che intervista il capo militare delle Br, Mario Moretti, e intitola il libro “Brigate rosse: una storia italiana”. L’anno scorso esco dal magnifico spettacolo teatrale di Fabrizio Gifuni sulle lettere di Aldo Moro e un collega molto illustre di cui tacerò il nome mi dice “Certo che quattro cretini hanno tenuto in scacco l’Italia...” Ma come, pure tu credi alla favola della “purezza” brigatista? Io sogno da anni di fare un film su Moro, che probabilmente non farò mai, ma se lo facessi tornerei agli anni del primo centrosinistra, a Moro che finanzia il boom economico facendo accordi separati con i produttori di petrolio arabi a dispetto dei cartelli americani, inglesi o francesi, garantendo all’Italia energia a prezzi stracciati. È lì che in certi ambienti nasce l’odio per la figura di Moro».

La cosa peggiore però è un’altra: «Ho il dubbio che di tutto questo in fondo non importi niente a nessuno. Per chi lo farei un film così? Chi andrebbe a vederlo? I ragazzi di oggi, che non sanno nemmeno che una volta esistevano i giornali?». Vale anche l’argomento opposto: un film come “I cento passi” ha fatto più di qualsiasi scritto o commemorazione per restituire la figura di Peppino Impastato alla memoria collettiva, soprattutto tra i giovani. «Perché Impastato era un eroe “imitabile”. Nella sua figura i ragazzi ritrovano se stessi. Il film ha circolato molto nelle scuole e l’ho visto con i miei occhi: quando parte la proiezione anche i più scalmanati tacciono. Il cinema può arrivare dove la scuola non arriva, creare il “mythos”, il mito nel senso del racconto. Purché sia avvincente: vale sempre la lezione dei “Tre moschettieri” di Dumas, altro che serie americane e algoritmi! Ma nei “Cento passi” il merito è anche del cast, in particolare di quell’attore meraviglioso che è Luigi Lo Cascio. E pensare che la produzione all’inizio voleva Kim Rossi Stuart. Attore magnifico, ma cosa c’entrava? Del resto imporre gli attori giusti è sempre una battaglia. Soprattutto in televisione. Quando preparavo “Lea” - il tv movie su Lea Garofalo, la donna uccisa dalla ’ndrangheta - scoprii quest’attrice fantastica e semisconosciuta, Vanessa Scalera. Mi dicevano eh però, con quel naso... Ma quale naso? Oggi fa “Imma Tataranni”, ormai è una star, ma so io quanto ho faticato per imporla».

È andata meglio per “Yara”, ricostruzione del delitto di Yara Gambirasio e soprattutto del relativo caso giudiziario prodotto da Netflix, con Isabella Ragonese nei panni della pm, che vedremo in autunno. «La presenza delle piattaforme accanto alla tv generalista è comunque un bene. I grandi network ormai sono schiavi degli indici d’ascolto, la qualità è l’ultima delle loro preoccupazioni. Ragonese mi ha conquistato subito perché era la più eccentrica delle candidate. Portava un elemento di squilibrio, è temeraria, come tutte le grandi attrici non ha paura di essere sgradevole se serve. È un’alchimia sempre delicata, gli attori devono potersi fidare del regista, altrimenti anche Kate Winslet non avrebbe mai fatto “Omicidio a Easttown”, dove è una poliziotta a tratti odiosa ma alla fine la adori. So che è andata su tutte le furie perché le avevano cancellato le rughe col photoshop e ha detto ora le rimettete tutte! Brava Kate, ti ho sempre amato segretamente, ora so che avevo ragione».

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