Uno studio avvincente su due degli stati mentali più arcaici e complessi del genere umano, con regia sapientissima dell’esordiente Fontana. Da non perdere

Mettiamola così. Un giovane regista svizzero trova un taccuino di viaggio nell’Argentina del 1980 del nonno banchiere, anzi “private banker”. Lo legge, lo trova laconico e reticente. Poi capisce. In Argentina c’erano i generali, certo. Nel 1980 però la giunta militare non colpisce solo giovani e oppositori ma anche ricchi e potenti. D’un tratto il terrore regna perfino tra i potenziali intestatari di conti svizzeri. I silenzi di quel taccuino parlavano, anzi gridavano. Bisognava interpretarli. Il risultato è un film che non somiglia a niente malgrado ispirazioni anche molto riconoscibili.

Immaginate, per puro paradosso, “Il terzo uomo” girato da David Lynch non nella Vienna del 1948 ma nella Buenos Aires del 1980, evocata con fedeltà antropologica stupefacente. Non solo luoghi - ville, haciendas, ippodromi, il Circulo de Las Armas - ma facce, anzi ghigne, e gesti, sguardi, mezze parole, posture: tutto preciso e implacabile come una rasoiata. L’esercito di attori non professionisti, scovati negli ambienti originari dei loro personaggi, assicura a “Azor” un impatto folle. Il resto lo fa una trama minima e vertiginosa.

Il “private banker” Yvan (Fabrizio Rongione, caro ai fratelli Dardenne) arriva a Buenos Aires con la moglie e consigliera Inès (Stéphanie Cléau, una scoperta) per due scopi: procurarsi clienti e ritrovare il suo socio Keys, svanito nel nulla. Yvan dunque non deve solo indagare ma essere all’altezza di quel socio abilissimo con clienti facoltosi, capricciosi e spaventati. Deve gestirli, rassicurarli, sedurli, evitando al contempo trappole e insidie mortali.

Un mestierante ne avrebbe fatto un banale thriller d’azione. La regia sapientissima dell’esordiente Fontana, classe 1982, ne fa uno studio avvincente su due degli stati mentali più arcaici e insieme complessi del genere umano, la paura e l’avidità (con il suo corollario: la ferocia). Solo che anziché rappresentarle, estetizzando la violenza, ne scruta l’ombra nei sorrisi, nelle frasi a metà, nelle chiacchiere mondane, nei messaggi cifrati, nelle cose non dette e forse nemmeno pensate che scandiscono le giornate di Yvan e Inès. Fino a quel tuffo finale e predatorio in un orrore (sì, come in “Cuore di tenebra”) che rappresenta la vittoria materiale definitiva e insieme la sconfitta morale assoluta. Su Mubi, piattaforma del cinema d’autore. Da non perdere. 

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