Certe partite si giocano a rovescio. La posta è alta? Il tono sia lieve. Il tema è arduo? La leggerezza s’impone. Almeno sulle prime. E quanto accade in “Argentina, 1985”, ora in sala vista la candidatura agli Oscar. Dovendo rievocare il processo epocale che dopo tante assoluzioni nei tribunali militari portò finalmente alla sbarra Videla, Massera e i generali della giunta golpista, si prevedevano scene aspre e occhi sbarrati. Invece Santiago Mitre (Buenos Aires, 1980) la prende alla larga. Partendo da un esilarante quadretto familiare che fa subito centro: cosa fare davanti all’orrore e al pericolo? Sprofondare nella paranoia o attrezzarsi e restare fedeli a se stessi?
Il procuratore Julio Strassera (il sempre irresistibile Ricardo Darín), fin lì uomo e magistrato prudente, tende alla prima ipotesi. Sa che sta per cadergli addosso un processo-bomba in un momento delicatissimo. Ha paura di non farcela, di vedere i militari assolti, di fare da merce di scambio. Inoltre teme per sé e per i familiari. Così manda il figlio piccolo a pedinare la primogenita, rea di avere un fidanzato sospetto... ma tutto esplode in una bolla di sapone grazie all’intervento a gamba tesa della moglie, che vedendo anche il lato familiare della faccenda pensa anzitutto al benessere (e alla libertà) dei figli.
Una scena da applauso che stabilisce subito il tono. Se cerchi la Storia (nomi, luoghi, date: è tutto vero), parti dalla vita intima. Tanto più che in quel viluppo di sentimenti contraddittori si dibatte un’intera nazione, traumatizzata dal ricordo delle torture e dei desaparecidos (un genocidio, stabilì il processo). E poi la famiglia è sempre la lente migliore per evocare un dramma che oltre a spaccare il paese divideva le generazioni.
Così Mitre, già autore di un altro bel film (fanta)politico con Ricardo Darín, “El presidente”, tratta in chiave “domestica” tutti i comprimari e gli ambienti in cui si snoda la vicenda (mai cast fu più vario e affiatato). Gli uffici della Procura, i rapporti con il giovane assistente assegnatogli d’ufficio, ansioso di smarcarsi da una famiglia collusa, soprattutto quel gruppo di ragazzetti inesperti, sparuti, malvestiti, magrolini, che sono perfetti per l’impresa proprio perché puliti, ignoti al regime, insospettabili agli occhi dei servizi ma anche dei tanti testimoni che sfileranno a deporre. Altra bella intuizione che dà a questo classico “procedural” un sapore di sfida e ricambio generazionale felicemente insolito per un titolo Amazon.
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AZIONE!
Terremotato in Italia, eroe in Vietnam, dirottatore di un volo intercontinentale, ispiratore (forse) del personaggio di Rambo. Poi, stabilitosi a Roma, pedina di giochi oscuri negli anni 70-80. Chi è davvero Raffaele Minichiello? È la domanda centrale del nuovo docu di Alex Infascelli, “Kill me if you can”. Da non perdere.
E STOP
Applaudito a Venezia, candidato a 3 Oscar tra cui quello al protagonista, esce “The Whale” di Darren Aronofsky, con l’ex-divo Brendan Fraser padre obeso e disperato. Enfatico, voyeuristico, ricattatorio, posticcio come il trucco indossato dal povero Fraser, il film più sopravvalutato dell’anno. Cosa non si fa per strappare una lacrima.