Raphael Glucksman è l'eurodeputato socialista francese che si è intestato in Europa la battaglia contro la sistematica repressione della minoranza musulmana degli uiguri da parte di Pechino. Dal 2017 la Cina cerca di assimilare alla cultura dominante questa etnia di origine turcomanna che vive all'ombra dell'altipiano tibetano secondo ritmi e cadenze tradizionali. Per farlo ha creato campi di rieducazione e di lavoro forzato e scuole-dormitorio per i figli degli uiguri. All'interno ogni tipo di violenza, dagli stupri di gruppo all'elettroshock passando per la sterilizzazione forzata delle donne, è permessa. La resistenza è punita con lunghi anni di carcere duro.
Perché la persecuzione degli uiguri riguarda noi europei?
«Si tratta di un crimine contro l'umanità. È la deportazione di un popolo e la sua riduzione in schiavitù. Con la globalizzazione, siamo tutti complici della schiavitù degli uiguri. Le grandi marche, come Zara e Nike, che strutturano il nostro immaginario e sono presenti nel nostro armadio, beneficiano della riduzione in schiavitù di questo popolo perché ne sfruttano la manodopera forzosa e a basso costo. Dobbiamo fare pressione per mettere fine ai campi di concentramento degli uiguri perché se abbiamo una certezza è che i dirigenti cinesi sono razionali e fanno sempre un calcolo costo-beneficio delle loro scelte. Se capiscono che non pagheranno un prezzo per la persecuzione del popolo uiguro continueranno. Nessuno chiede una guerra contro la Cina. Ma tra l'inazione e la guerra c'è tutto uno spazio che si chiama politica».
Il 22 marzo scorso, coordinandosi con Usa, Canada e Regno Unito, l'Europa ha sanzionato quattro politici cinesi coinvolti nella repressione e un'azienda dello Xinjiang. Si tratta delle prime sanzioni contro la Cina dai tempi di Tiananmen.
«Finalmente le parole tradotte in gesti. Sono chiaramente insufficienti ma chi conosce i meandri delle istituzioni può sentirsi sollevato, sapendo che nonostante tutte le difficoltà qualcosa è stato fatto. Simbolico forse. Ma in politica i simboli contano. Adesso bisogna tradurre queste prime azioni in una politica verso la Cina e verso la questione uigura. Non può rimanere una tantum».
La risposta cinese non si è fatta attendere ed è stata maggiore per numeri e dimensioni.
«Illustra perfettamente la differenza tra una democrazia e una tirannia. La prima denuncia i crimini contro l'umanità, la seconda li commette. Sono fiero di essere sulla lista delle persone sanzionate. Il fatto che il governo cinese si permetta di sanzionare addirittura un'istituzione europea (il parlamento) dimostra a che punto si senta potente».
Raphaël Glucksmann
L'accordo di investimenti con la Cina (CAI) voluto dalla Germania e firmato da Commissione e Consiglio lo scorso 30 dicembre verrà approvato dal parlamento europeo?
«I cinesi sanzionano l'istituzione del Parlamento e noi votiamo l'accordo di investimento con la Cina? Sarebbe certificare la nostra assenza. Il dibattito sulla revisione del testo è già iniziato, e non è più una questione classica di divergenze tra destra e sinistra. Ogni gruppo è diviso al suo interno. In Germania il volume del dibattito è molto alto grazie ai Verdi che sono più indipendenti dei socialisti dagli interessi delle multinazionali tedesche. Le lobby giocheranno però un ruolo importante nei prossimi mesi. In questo la Cina è stata geniale: non ha molte lobby a Bruxelles ma ha trasformato le aziende europee con forti interessi in Cina in proprie ambasciatrici».
La mancata entrata in vigore del CAI non lederebbe gli interessi commerciali europei?
«Il commercio non può essere la definizione di ciò che vogliamo essere. Altrimenti tra 10 anni saremo un popolo di consumatori e cortigiani. È questo il futuro dell'Europa? Diventare una Disneyland per cinesi? La politica deve avere il coraggio di riprendere in mano le redini della globalizzazione, uscire dall'idea che non possiamo fare nulla. La certezza dell'impotenza sta uccidendo l'Europa».
Il CAI è stato secondo lei un errore?
«Arrivato il giorno dopo gli arresti di Hong Kong, è stata una mossa sbagliata sia nei confronti del neo presidente americano Joe Biden sia in termini di strategia industriale. Avevamo parlato per tutto il 2020 di come riportare in Europa una parte della produzione industriale che si è persa negli anni e su cui non abbiamo più controllo in momenti di difficoltà e poi sigliamo un accordo che nega tutti in discorsi fatti durante la pandemia? La realtà è che abbiamo dato retta alle esigenze di Angela Merkel, che cerca di soddisfare le aziende tedesche dipendenti dalla Cina. Ma questa non è politica. La potenza commerciale dell'Europa dovrebbe essere al servizio dei suoi principi politici e dei suoi interessi strategici. Ci darebbe una forza incredibile. Perché se è vero che noi siamo dipendenti dalla Cina è altrettanto vero che i cinesi hanno bisogno di vendere a noi le loro merci. Siamo in un rapporto di forza e dobbiamo affermare la nostra visione politica».
Che ruolo possono giocare i cittadini?
«Impedire l'entrata nel mercato unico dei prodotti dello schiavismo. Il 20 cento del cotone mondiale proviene dalla Cina e di quello l'80 per cento è prodotto dal lavoro forzato di centinaia di migliaia di esseri umani. È il cotone della vergogna. Abbiamo lanciato una grande campagna in Francia contro le aziende che utilizzano nella loro filiera il lavoro degli schiavi. Molte hanno rinunciato: Adidas, Lacoste, H&M, Calvin Klein, Oviesse in Italia. Altre, come Zara e Nike, ancora no. Migliaia di giovani hanno con questa campagna sperimentato la loro prima battaglia politica. Sono riusciti lì dove i partiti politici non hanno voluto intervenire e hanno capito che hanno potere e devono usarlo. Come quando l'amministratore delegato di Lacoste ha riposto alle 11 di sera alla telefonata di un ragazzo di 20 anni».
La globalizzazione ha deluso le aspettative del mondo occidentale?
«L'Occidente si è impantanato intellettualmente negli anni Novanta con la certezza che la globalizzazione avrebbe universalizzato un modello politico e beneficiato la nostra società. Ma era un'idea fondata su un errore concettuale nato negli Usa e importato in Europa, dove ci ha posto in uno stato di debolezza. Oggi noi europei siamo gli ultimi a credere nella produzione intellettuale delle università americane degli anni 90 e all'Organizzazione mondiale del commercio. Gli Usa non ci credono più da anni. Da quando ad uscire vincente dalla globalizzazione, contraddicendo ogni nostra aspettativa, è stato il partito comunista cinese. Non solo la Cina non è diventata più democratica aprendosi al commercio ma, sviluppando una classe agiata che convive ancora con cittadini schiavi, è riuscita a diventare insieme Paese produttore e mercato immenso per le proprie imprese. Il sistema cinese è un matrimonio tra il sistema comunista autoritario e il capitalismo più debosciato. Non rientra in nessuno dei modelli spiegati all'università. In Occidente non esiste intellettualmente».