Si moltiplicano i casi di dipendenti licenziati perché avevano postato sul social newtork commenti, pareri o fotografie poco graditi ai propri datori di lavoro. Un avvocato spiega perché bisogna stare molto attenti (FpS Media)

«You have 0 friends»: tu non hai nessun amico. Almeno sul posto di lavoro. Perché Facebook è un libro aperto, non un diario privato, e le conseguenze reali di un'applicazione virtuale che è diventata un mezzo di comunicazione di massa hanno spesso un prezzo altissimo. Succede sempre più di frequente, dato che una fotografia postata nella propria bacheca può innescare una crisi di coppia o un commento graffiante può trasformarsi in causa di licenziamento. Anche se il social network più conosciuto al mondo ha l'età di un bambino, sono già molti i casi di allontanamenti coatti di dipendenti a causa di commenti improvvidi sulla propria azienda nella bacheca Fb. Da circa un anno succede anche in Italia.

Roma, febbraio scorso. Francesco e Fabiola sono due dipendenti della Cassa Nazionale dei Commercialisti: da poco in ufficio c'è stato un cambio di dirigenza e si vive un’atmosfera pesante, fatta di litigi e contestazioni. I due commentano su Facebook le vicende quotidiane accadute in ufficio e ricevono tre lettere di richiamo da parte dei propri datori: la quarta comunica il licenziamento a Francesco, che lavorava all'ente da oltre sette anni.

Sempre nella capitale, qualche tempo fa suscitò polemiche il caso di Francesco Bianco, ex componente dei Nar, piazzato dal sindaco Gianni Alemanno all'Atac (l'azienda di trasporti romana), che fu sospeso dopo aver pubblicato sulla sua pagina Facebook insulti rivolti agli studenti che manifestavano contro la riforma Gelmini e in generale alla comunità ebraica, il tutto mentre era al lavoro: tanto per la cronaca, a marzo scorso Bianco è stato riassunto in azienda.

Chi invece ha avuto datori di lavoro meno compiacenti e molto più suscettibili è stata la friuliana Sara Amlesù, che «sognava il gazebo a Santo Domingo, invece di svegliarsi la mattina per andare a lavorare alla Danieli». Licenziata.

Stessa sorte del cameraman di un network lombardo che quando faceva le ore piccole in sala montaggio accendeva il computer aziendale e aggiornava la sua pagina Fb. Oppure della segretaria di una ditta bresciana che aveva scritto nella sua bacheca: «Esprimere un'opinione in ufficio è pura utopia». Appunto: licenziata. Ma dopo è stata risarcita con ottomila euro.

E qui risiede il punto più interessante: quando l'allontanamento è deciso in base alla propria condotta su Facebook, nel nostro ordinamento la sanzione è illegittima e il dipendente può presentare ricorso?

«Difficile», commenta al riguardo l'avvocato giuslavorista Francesco Rotondi dello studio Lablaw, «bisogna considerare che, se non si applicano protezioni, la Rete è come un muro bianco, dove sono libero di attaccare qualsiasi post-it: tocca al lavoratore tutelare sé stesso». Ma non si configura una limitazione della libertà di espressione o una violazione della privacy? «Guardi, si procede con il licenziamento solo se un fatto incide sul vincolo di fiducia tra datore e dipendente. Per assurdo, se fossi il dirigente di un'azienda e mi arrestassero per violenza carnale, non si tratterebbe di un reato che incide sul rapporto di lavoro: il principio è il provvedimento di contestazione disciplinare. Ad esempio l'emissione di assegni a vuoto messa in atto da un bancario: insomma deve essere stato violato il contratto tra lavoratore e datore. E quando questo succede, a prescindere dalla causa, il capo ha tutto il diritto di licenziare il proprio dipendente». Però Facebook è un accesso pubblico a una dimensione privata. «Ma è lei che controlla l'accesso», continua Rotondi, «c'è stato il caso recente di una ragazza con un contratto di apprendistato: il rapporto prevede che alla fine del periodo previsto si possa o meno essere confermati, la valutazione è deputata esclusivamente al datore di lavoro. Verso la fine del proprio apprendistato, la ragazza scrisse su Fb cose del tipo: "Guadagna dieci volte me e non sa fare nulla". I riferimenti erano diretti al suo datore. Lei non è stata confermata, ma poi ha dichiarato: "Sapevo che alla fine stavo sbagliando, perché scrivere su Facebook è come parlare in piazza"».

Così le aziende sempre più spesso divulgano disciplinari interni con le indicazioni per usare correttamente i social network sui luoghi di lavoro: come a Mediaset dove i lavoratori, insieme alla busta paga, hanno trovato un'informativa specifica sull'uso del pc a lavoro.

In generale oltre il 50 per cento delle aziende italiane blocca l'accesso a Facebook dai pc interni. Si tratta dell'onda lunga di quanto avviene già all'estero, dove da tempo si è alle prese con le eventuali controindicazioni dell'uso di Facebook al lavoro. Tant'è che Bay Gross, studente di Yale ed esperto di informatica, ha inventato un sistema per trasformare il proprio news feed di Fb in un foglio di calcolo excel: così non dovreste incorrere nelle ire del capo e soprattutto non subire conseguenze. Perché soprattutto negli Usa e in Regno Unito, il licenziamento a causa della propria attività sui social netowork è ormai un dato acquisito. Si va da Kimberly Swann, inglese di 16 anni licenziata perché sulla bacheca Fb definiva il lavoro "noioso" all'interdizione imposta dal Newcastle Club ai suoi calciatori nell'usare Twitter in modo "improprio" verso la società.

In Australia e negli Usa il quadro è ancora più composito, tant'è che un australiano, Travis Megale, ha creato addirittura un gruppo su Fb chiamato "Fired by Facebook" che conta oltre 500 iscritti. Negli States i casi di licenziamento sono più eclatanti: si va da Paula, 21 anni, allontanata per aver pubblicato su Facebook le foto della festa di Natale della sua azienda, alla madre single che ha perso il posto perché sul social network diceva di lavorare troppo e di trascurare la figlia. Fino al caso accaduto qualche giorno fa del licenziamento di Samuel Crisp, dipendente della Apple, che aveva criticato l'azienda di Cupertino sul popolare social network.

«Nel mondo anglosassone», conclude Rotondi, «vige il principio di common law diversamente del nostro ordinamento. Negli Usa, ad esempio, un uso giudicato scorretto del proprio profilo su un social può essere motivo diretto del licenziamento. Da noi le tutele dei lavoratori sono molto più rigide e per questo è più difficile allontanare qualcuno per la lesione del vincolo fiduciario attraverso l'uso di Facebook. O comunque questa non sarà mai la motivazione ufficiale di un licenziamento: altrimenti consiglio al dipendente di presentare ricorso e visto il vuoto normativo sull'argomento potrebbe anche trovare soddisfazione».

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