Rivoluzione a Venezia, Ricci/Forte: «Il nostro Paese sta vivendo un nuovo oscurantismo»

La 49esima edizione del Festival internazionale del Teatro, diretta per la prima volta dal duo Stefano Ricci e Gianni Forte, punta sui grandi nomi della scena teatrale contemporanea. Per riflettere su noi stessi partendo proprio dalle storie di prostitute, omosessuali, tossicodipendenti, ebrei

Un popolo di personaggi pronti a raccontarci le loro storie - quelle degli indigenti, degli ultimi, spesso condannati dalla comunità in cui vivono, eppure portatori di una diversità che è ricchezza e punto di forza - sta per invadere Venezia. La 49esima edizione del Festival internazionale del Teatro (dal 2 all’11 luglio), diretta per la prima volta dal duo ricci/forte, punta (quasi) tutto sui grandi nomi della scena teatrale contemporanea per provare a riflettere su noi stessi partendo proprio dalle storie di prostitute, omosessuali, tossicodipendenti, ebrei, e affrontare così un nuovo inizio.

È la Biennale diretta da ricci/forte (Stefano Ricci e Gianni Forte), ormai da anni considerati gli enfant terrible del teatro italiano, più o meno da quando in “Troia’s Discount” ci mostravano esseri umani in cerca di un acquirente sui carrelli della spesa di un discount. Da allora non si sono mai più fermati, spaziando dalla prosa alla lirica, ma sempre con uno stile inconfondibile, senza essere mai banali, perfino correndo il rischio di non piacere pur di non rinunciare ad esprimersi in maniera schietta e con un linguaggio innovativo. E ora dirigono la Biennale Teatro di Venezia. «In questi 4 anni cercheremo di portare avanti una piccola rivoluzione, una circumnavigazione attorno all’essere umano», spiegano: «E il blu sarà il nostro colore per il 2021». Scelgono l’azzurro, dunque, per dipingere il vuoto lasciato dal teatro, che vogliono riempire di storie diverse che possano aiutare ciascuno di noi nella costruzione di una identità.

La vostra nomina è arrivata in un momento particolarissimo per tutti e il mondo dello spettacolo è stato fra i settori più penalizzati durante questa pandemia. In che modo, secondo voi, bisogna ripartire e come dobbiamo immaginare il futuro del teatro?
Stefano Ricci: «La nomina è arrivata in un momento del Paese in cui le criticità del settore erano già sclerotizzate, si navigava già con molta fatica. Il blocco forzato ci ha costretto ad interrogarci su come ricostruire, ad indagare sul senso del lavoro artistico. Ci siamo resi conto della friabilità del nostro mondo, di quanto sia scarso il peso della cultura nel nostro Paese. Purtroppo siamo una razza in via di estinzione. Da qui dobbiamo ripartire, perché la cultura è parte attiva di ogni individuo. E nel rispetto della diversità sta la nostra grande ricchezza».

Gianni Forte: «C’è bisogno di una “Rinascenza”, partire da una rinascita interiore per poi proiettarla fuori. Il disastro, purtroppo, è iniziato decenni fa. Bisogna capire che la cultura e il teatro non sono accessori, ma necessità. Il teatro è un cavallo di Troia per conquistare la città, per condividere ciò di cui si vive giornalmente. Avere una coscienza politica e poetica è importante. Dobbiamo tornare a a sedurre contro l’ibernazione della mente. Il Teatro non è un luogo elitario, deve parlare al popolo».


Il programma della Biennale segue principalmente due direzioni: da una parte gli artisti internazionali e dall’altra i giovani talenti. E il tema degli ultimi, mi pare lo attraversi tutto. Da dove nasce questa necessità di dare voce ai più deboli?
Gianni Forte: «In tanti lavori presenti in questa Biennale si parla di gente che vive ai margini, di persone che non sono soltanto esuli di una comunità, ma esuli di se stessi. Ciascun artista lo fa seguendo il proprio ritmo, ma sottolineando questo tema che è molto presente perché necessario. Kornél Mundruczó, per esempio, presenta “Hard to be a God”, in cui un uomo deve decidere fra il bene e il male. L’azione si svolge all’interno di due camion e il porto di Rotterdam diventa uno spazio in cui tutto può accadere, fra trafficanti di esseri umani, prostitute e snuff movie».


Un tema simile, in cui in qualche modo si è chiamati a fare una scelta, viene affrontato anche nel lavoro che presenterà Krzysztof Warlikowski (a cui è stato assegnato il Leone d’oro), “We are Leaving”, adattamento di “Suitcase Packers” dell’autore israeliano Hanoch Levin...
Gianni Forte: «Il titolo originale di “We are Leaving” aveva un punto interrogativo: ce ne andiamo? È l’interrogativo che si pongono gli artisti. Dopo gli ebrei, in Polonia gli omosessuali sono considerati il secondo motivo di degrado per il Paese, da lì la domanda: dove andiamo? In un Paese più civile? Levin decide di restare, di vivere la sua vita da gay».


A questo proposito Thomas Ostermeier, con lo spettacolo “Qui a tué mon père”, dal romanzo autobiografico di Édouard Louis, accusa, facendo nomi e cognomi, quei politici e uomini di stato che hanno distrutto il welfare colpendo la dignità dei più fragili, gli esclusi dalla storia come suo padre. Crescere in una certa realtà è già una condanna?
Gianni Forte: «Certo. Attraverso la storia di suo padre, Édouard Louis non parla solo di cosa significa sentirsi escluso come omosessuale, ma parla anche di cosa vuol dire essere esuli di una classe sociale. E accusa pesantemente i politici, compreso Macron, di questa condanna».


C’è molta attesa per Kea Tempest, che arriva a Venezia con un’esibizione live di “The Book of Traps & Lessons”. Anche lei parla di povertà, di classi sociali.
Gianni Forte:
«Kea Tempest racconta la fragilità sociale con un linguaggio rap per entrare dentro ciascuno di noi. E ci riesce molto bene».
Stefano Ricci: «La cosa più importante non è tanto il racconto dell’emarginazione, ma il rispetto della differenza, che poi attraverserà tutti e quattro gli anni della Biennale per tracciare un percorso che deve raccontare la costruzione di una identità, i perimetri con cui ci scontriamo».


E poi ci sono gli italiani: Danio Manfredini e Francesco Pini (“Nel lago del cor”, spettacolo sull’atrocità dei lager), Roberto Latini (“In exitu” di Giovanni Testori), Paolo Costantini (“Uno sguardo estraneo”, dal testo di Herta Müller “Oggi avrei preferito non incontrarmi”). Tutti invitano al rispetto della differenza. In tempi di Ddl Zan...
Stefano Ricci: «Questo Ddl di cui si discute tanto va proprio in questa direzione: bisogna rispettare la diversità dell’altro. E raccontarlo in teatro, attraverso tutti questi spettacoli, significa avere la possibilità di celebrare la libertà come scintilla di un fuoco. Il nostro Paese sta vivendo un nuovo oscurantismo. Utilizziamo l’arte come costruzione identitaria».


Che direzione prenderà, nei prossimi anni, il programma della Biennale?
Stefano Ricci:
«Dobbiamo tener conto di ciò che sta accadendo. Cercheremo di focalizzare meglio le diverse questioni. I giovani sono i più smarriti, per questo daremo spazio alla formazione. Quest’anno, tra l’altro, abbiamo aggiunto al Bando Biennale College la sezione dedicata ai performer, perché anche il corpo parla, non solo la parola. In generale, comunque, bisognerebbe aprire le gabbie e condividere qualcosa che ci appartiene. Ascoltare il battito di chi ci sta a fianco e che finora abbiamo ignorato. C’è tanta indifferenza per le nostre strade, mai come ora i deboli sono ancora più deboli. Ma noi faremo la nostra parte. Il futuro è bello perché fatto di tante possibilità di innesti, un laboratorio sempre in costruzione».

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