
Nelle aree più colpite dai combattimenti, Tariq Al-Matar, Wadi Al-Gharbi, Ain Zara e Qasr Ben Gashir, mancano acqua ed elettricità, le strade sono interrotte: chi può cerca di scappare, qualcuno resiste in casa per paura di saccheggi e razzie da parte delle truppe. L’attacco su Tripoli sembra far tramontare definitivamente le speranze di una negoziazione in cui molti speravano: la conferenza nazionale di Ghadames prevista per il 14 e 16 aprile è stata annullata in un comunicato dell’inviato speciale dell’Onu Ghassam Salame. Le speranze di riconciliazione tra i due principali attori del paese - il Gna (il governo di Fayez al Sarraj sostenuto dalla comunità internazionale) e Haftar, federmaresciallo del governo esiliato di Tobruk - e di una road map in vista di possibili elezioni il prossimo autunno, appaiono ormai illusorie. Di fronte alla tracotante azione militare di Haftar, il governo di Tripoli ha raccolto tutte le forze a difesa della capitale, sostenuto anche dalle truppe della città-stato Misurata, e ha stanziato due miliardi di dinari libici per sostenere la guerra.
Haftar ha ordinato alle sue truppe di marciare su Tripoli per «liberare la capitale dai terroristi e dagli estremisti». Parole d’ordine che aveva già usato nelle lunghe e sanguinose campagne a Bengasi e Derna. Ma dietro i proclami si nascondono gli interessi contrapposti degli alleati del generale che si muovono nello scacchiere internazionale (Russia, Stati Uniti, Francia) e gli interessi regionali di Egitto, Emirati, e Arabia Saudita. Il controllo su Tripoli significa il controllo sulle risorse strategiche: gli scali aerei e marittimi, il controllo della Banca centrale libica, e altre istituzioni statali di cruciale importanza.
Secondo Tim Eaton, ricercatore esperto di Libia per l’istituto di affari internazionali Chatam House, è difficile immaginare una conclusione a breve termine dei combattimenti: «politicamente per Haftar è difficile ritirarsi, perciò temo che il conflitto si protrarrà a lungo. Ed è fondamentale considerare gli impatti economici di questa ennesima guerra».
L’economia della Cirenaica dipende in parte da Tripoli, per gli stipendi dell’Lna e soprattutto perché, benché Haftar controlli la maggioranza dei giacimenti, non è in grado di monetizzare il petrolio, visto che gli introiti delle vendite internazionali passano da Tripoli, che controlla un bilancio annuale di 40 miliardi di dinari (29 miliardi di dollari).
«Se il Gna smettesse domani di pagare i salari nella parte orientale del paese», continua Eaton, «Haftar potrebbe ostacolare la produzione delle infrastrutture petrolifere che controlla, e che sono la maggioranza. Se Haftar avesse la possibilità di gestire le vendite internazionali del petrolio saremmo di fronte davvero a una trasformazione del conflitto, ma al momento nessuno può permettersi di bloccare né le infrastrutture né la vendita del petrolio».
Nel giugno 2018 le spedizioni di greggio dalla Libia sono state sospese per settimane dopo che Haftar aveva conquistato due terminal di esportazione sotto il controllo del Noc (National oil corporation) basato a Tripoli, trasferendoli all’autorità petrolifera rivale. Nei disordini la Libia ha perso un miliardo di dollari di introiti, prima che i terminali fossero restituiti all’autorià di competenza. Dall’inizio di quest’anno, la coalizione di Haftar controlla la maggior parte del sud-ovest del paese, una distesa desertica ricca di petrolio, tra cui il giacimento più grande della Libia, quello di Sharara.
A oggi gli scontri armati sono circoscritti all’area della capitale, quindi le zone petrolifere sono risparmiate, ma se le forze di Haftar saranno spinte indietro e indotte a una ritirata, i giacimenti petroliferi da lui controllati potrebbero essere oggetto di nuovo di attacchi che danneggerebbero l’intera economia. Quello che è certo è che ora i rischi maggiori sono le conseguenze sulle istituzioni statali tripoline: se la capitale diventasse un campo di battaglia saremmo di fronte all’indebolimento delle istituzioni centrali che coordinano e gestiscono le risorse economiche e gli introiti petroliferi.
Non è chiaro inoltre quanto siano sostenibili le finanze interne del generale. Secondo Reuters il governo di Tobruk ha venduto obbligazioni per 23 miliardi di dollari per finanziare i suoi salari, scavalcando la Banca centrale di Tripoli e creando un potenziale buco economico che andrebbe ad allargare il debito già accumulato dal 2014, da quando il paese si è diviso in due amministrazioni.
Il ministero delle finanze di Tobruk avrebbe venduto il debito a una banca centrale parallela basata in Cirenaica e con il ricavato delle vendite starebbe pagando i dipendenti statali, con dinari paralleli stampati in Russia.
«I sostenitori di Haftar non lo ammetteranno mai ma l’economia della Libia orientale dipende da Tripoli in una misura che viene spesso sottovalutata», dice Jalel Harchaoui, ricercatore per il Conflict research unit del Clingendael institute, «i 10 miliardi di dinari sotto forma di banconote stampate in Russia lo dimostrano. La Banca Centrale di Tripoli non ha mai autorizzato questa operazione, ma l’ha tollerata. Questo significa che le banconote libiche orientali sono di fatto sostenute dalle riserve in valuta forte di Tripoli. Questa guerra si inserisce in un percorso che negli ultimi due anni e mezzo aveva visto progressi apprezzabili sul fronte economico, la Libia è passata da una grave crisi nel 2016 a una situazione accettabile nel 2018. La produzione di petrolio è aumentata e la crisi monetaria contenuta. Tutto questo è stato raggiunto attraverso un lavoro diplomatico che rischia di essere vanificato da questa ennesima campagna militare».
Mettere a repentaglio la ripresa significa che il dinaro potrebbe ricominciare a perdere valore rispetto al dollaro, l’inflazione a salire di nuovo. E l’insicurezza e l’instabilità tornare protagoniste della vita quotidiana dei libici. Ed è esattamente sfruttando la percezione dell’instabilità che Haftar si è presentato in questi anni come il solo uomo in grado di riportare e mantenere la sicurezza nel paese. Su queste premesse è cresciuto nel tempo il supporto internazionale. E la spregiudicatezza con cui il generale sta gestendo la sua campagna militare lascia pensare che si senta supportato se non incoraggiato dai suoi alleati.
Il regime di Gheddafi - tollerato per decenni - operava mantenendo stabilità e miscelando forza, ideologia e distribuzione delle entrate petrolifere e il suo regime aveva reso la Libia il paese più ricco di qualsiasi altro in Africa. Il vuoto di potere post rivoluzionario che ha destabilizzato il paese ha contribuito a dare alla luce un nuovo leader “forte” che è tanto più cresciuto tanto meno erano credibili le forze sostenute dalla comunità internazionale; leader forte che ha iniziato un’espansione a sud e mira a Tripoli perché la presa di Tripoli prima di essere una conquista geografica è una conquista economica.
Prendere Tripoli significa prendere definitivamente la ricchezza generata dal petrolio. Il rischio certo è un altro Egitto. Il ritorno di un regime militare sostenuto dall’esterno a protezione degli interessi energetici e di una presunta sicurezza.