
I milioni di cittadini scesi in piazza a celebrare il capo della sezione Al Quds delle Guardie della rivoluzione sono il segno del peso e del carisma che Soleimani esercitava. E quello che la sua memoria eserciterà, in Iran e nei molti paesi in cui l’abilità del generale ha saputo tessere una trama di milizie e forze paramilitari. L’unità di cui era a capo Soleimani è, infatti, responsabile delle operazioni estere dei Guardiani della rivoluzione, e questo ha reso il generale per decenni una figura cruciale della politica estera prima ancora che militare iraniana. È stato Soleimani ad armare e addestrare le milizie sciite ritenute responsabili della morte in Iraq di 600 soldati americani dal 2003 al 2011. È stato l’uomo chiave tra l’Iran e Hezbollah in Libano, ha guidato le strategie per armare gli Houti nel Nord dello Yemen. Ha guidato le politiche iraniane per supportare, addestrare e armare le milizie che hanno sostenuto la guerra di Bashar al Assad in Siria. Il conflitto siriano avrebbe avuto un altro esito senza il suo soccorso.
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Lo sapevano gli Stati Uniti che già nel maggio del 2011 imposero sanzioni a Soleimani accusandolo di fornire armi e supporto al regime siriano, e lo sapeva l’Europa, che un mese dopo lo inseriva nella lista delle sanzioni dell’Ue. Uomo di potere e di relazioni, sapeva agire nell’ombra ma anche esporre la sua presenza, che bastava per evocare una strategia e la direzione degli eventi.
Quando nel 2014 il cugino di Bashar al-Assad, Hilal, morì combattendo al confine con la Turchia, c’era Soleimani a porgere condoglianze e supporto al dittatore. Secondo documenti pubblicati dal New York Times sempre nel 2014 Soleimani avrebbe garantito al regime siriano, attraverso la sua influenza sul ministro dei trasporti iracheno, la possibilità di far passare voli carichi di armi per Assad attraverso lo spazio aereo iracheno. Nel 2015 sfidò il divieto di viaggio imposto dalle sanzioni e volò in Russia a coordinare con Mosca l’intervento in Siria. Secondo la Reuters fu in quella occasione che Iran e Russia maturarono un accordo: i russi avrebbero supportato Assad con una campagna aerea mentre a terra se la vedevano siriani, miliziani iraniani e Hezbollah libanese.
Ha impedito il crollo di Assad, dato per certo all’inizio del 2012. Ha impedito cioè che l’Iran perdesse l’alleato solido della regione. Lo scorso anno, durante la visita in Iran di Assad, c’era significativamente Soleimani accanto al dittatore. Sapeva spostare equilibri, di più, sapeva crearli a vantaggio di Teheran. A questo era chiamato: proteggere ed espandere l’influenza iraniana.
I suoi metodi erano spicci: alimentare la natura settaria degli scontri, assediare le città da riconquistare, strangolano i civili impedendo l’accesso di cibo e medicine, provocare la fame e dunque la morte di migliaia di persone. Non distinguere militari e civili. E poi brindare all’avvenuta riconquista.
Quando Aleppo è stata riconquistata nel 2016, c’era lui e non Assad a visitare la città. Soleimani è considerato un macellaio senza scrupoli dai suoi nemici, e un eroe, di più, un culto in Iran e in per tutta la rete di forze costuite nella regione. Forse, proprio l’aura di eroe ha contribuito alla spregiudicatezza delle sue azioni e dei suoi movimenti. Soleimani non era Osama bin Laden, non viveva recluso in un bunker; era un uomo senza scrupoli che si muoveva con la disinvoltura di chi pensa che può alzare la posta senza rischiare conseguenze. E questo ha fatto negli ultimi mesi: aumentare la tensione pensando che Trump non avrebbe reagito, come non lo fecero i suoi predecessori, per non far precipitare il confronto nella brutalità di una guerra totale.

L’Iran in pochi mesi ha abbattuto un drone statunitense, colpito strategiche infrastrutture petrolifere, le milizie sciite hanno ripetutamente lanciato razzi nelle basi militari irachene che ospitano soldati americani provocando la morte di un contractor. L’azione ha determinato la reazione degli americani, che hanno ucciso 25 miliziani. Ritorsioni incrociate culminate con l’assalto all’ambasciata americana nella Green Zone di Baghdad il 31 dicembre. E alla risposta definitiva, spettacolare, inattesa forse: il drone che la notte del due gennaio ha ucciso Soleimani, significativamente sulla strada dell’aeroporto della capitale.
L’Iran non poteva non reagire. Aveva promesso vendetta feroce e così è stato, ha risposto lanciando a pochi giorni di distanza l’operazione “Soleimane martire”.
Poteva scegliere una reazione - anche qui - per procura, per mano della rete di milizie istituite da Soulemani. Ha scelto un attacco in grande stile. Dall’Iran, la notte tra il sette e l’otto gennaio, lanciando decine di missili che hanno colpito le basi militari di Ayn al-Asad e di Erbil in Iraq che ospitano personale americano.
La morte di Soleimani ha già provocato importanti conseguenze: ha compattato il sentimento nazionalistico iraniano intorno al carisma del “martire vivente della rivoluzione”, così lo chiamava l’Ayatollah Ali Khamenei, e la pronta risposta del Parlamento iracheno che il sei gennaio ha raggiunto il quorum di presenza e ha votato a maggioranza semplice una risoluzione che chiede al primo ministro Adil Abdul-Mahdi di procedere alla cancellazione degli accordi di sicurezza con le forze statunitensi. La votazione ha avuto l’appoggio dei partiti politici sciiti che rappresentano la maggioranza ma è stata boicottata da curdi e sunniti, per cui la presenza statunitense è ancora cruciale per contrastare la presenza dei sostenitori dell’Isis nel paese. La risoluzione non ha valore legislativo, non obbliga, cioè, a procedere subito all’espulsione delle truppe americane, delega questo compito al governo, ma Mahdi che ne è a capo è depotenziato, il suo è un governo di transizione perché costretto alle dimissioni dalle proteste di piazza che dall’inizio di ottobre stanno animando le strade della capitale Baghdad e di altre città del paese, Karbala, Najaf, Nassirya.
Il voto non è vincolante, si diceva, ma è sintomatico dell’insofferenza alla presenza di truppe straniere e contemporaneamente dell’influenza dell’Iran nel Paese. Adil Abdul-Mahdi è emanazione diretta dell’Iran. Dopo la morte di Soleimani ha dichiarato in Parlamento che il generale a capo delle Forze al Quds si trovasse a Baghdad per discutere con lui: «Dovevo incontrarlo la mattina dopo la notte in cui fu ucciso», ha detto, aggiungendo che l’Iran e i sauditi si erano impegnati in un dialogo per placare le tensioni che agitano la regione con l’Iraq a svolgere il ruolo di mediatore. «Era venuto a consegnarmi un messaggio dall’Iran, rispondendo al messaggio che abbiamo consegnato dall’Arabia Saudita all’Iran», ha detto il primo ministro, senza fornire altri dettagli.
Mahdi si è dimesso dalla carica di primo ministro alla fine di novembre, dopo due mesi di proteste. Allora le vittime della violenta repressione sui manifestanti erano poco più di trecento. Oggi sono cinquecento.
Protagonista attivo di questa violenta repressione è stato proprio Qassim Soleimani - il regista, lo stratega delle violenze - attraverso la rete delle milizie da lui addestrate e finanziate. Di Soleimani è stata rilevante la vita ed è eloquente la morte. Ucciso con lui Abu Mahdi al-Muhandis, proprio il leader di Kata’ib Hezbollah, il capo cioè della milizia che ha perpetrato torture, intimidazioni e morte di centinaia di manifestanti. Proprio il gruppo Kata’ib Hezbollah sarebbe responsabile del massacro di venti giovani al garage Sinak di Baghdad (uno dei due edifici limitrofi a Piazza Tahrir occupati dai manifestanti) la notte tra il 6 e il 7 dicembre scorso. Tutti i sopravvissuti raccontano di miliziani arrivati con la fascia gialla in testa, che ricorda - appunto - gli uomini di Hezbollah. Miliziani che hanno tortutato e ucciso a sangue freddo, un’operazione pianificata e feroce. Massacri perpetrati con il placet delle forze governative irachene.
Sugli scenari militari della morte di Solimani molto si è detto e molto si sta ipotizzando. Dopo l’attacco alle basi Usa in Iraq, l’Iran agirà ancora e su larga scala o userà le sue milizie per far vivere uno stato di costante terrore alle truppe americane nella regione? Si arriverà alla guerra totale o sarà un conflitto a bassa intensità? Sarà un confronto militare tradizionale o andiamo incontro a mesi, anni, di confronto asimmetrico fatto di cyber attacchi e che colpisca il settore dell’energia, le istallazioni petrolifere? Il tempo lo renderà più chiaro. Quello che è già chiaro è che la morte del “martire vivente” ha costretto la vitalità e la forza della protesta di piazza irachena in un tragico cul-de-sac. Il giorno dopo l’attacco Piazza Tahrir aveva un solo coro: “né con gli Stati Uniti, né con l’Iran”. È in questa frase che giace la forza della piazza, della generazione 2003, la generazione che è nata, o ha vissuto a cavallo dell’invasione statunitense, che ha memoria di violenze e ritorsioni, guerre civili e abusi delle milizie. Sono state queste le parole chiave che hanno spinto migliaia di ragazzi in piazza: Basta corruzione, basta strapotere delle milizie, basta Iran.
Non vogliamo un impiego statale che compri il nostro consenso, dicevano i giovani in piazza, vogliamo indietro il nostro Paese. Per questo la piazza non ha leader, e ha combattuto per avere una sola bandiera, libera dalle divisioni settarie, svincolata per quanto possibile dai leader religiosi: la bandiera irachena.
Le prime vittime della morte di Soleimani, del peso simbolico della sua uccisione, sono proprio le piazze che in questi mesi hanno incendiato Libano, Iraq e lo stesso Iran. A novembre, infatti, un’ondata di proteste popolari ha attraversato anche l’Iran, nel mezzo di una grave crisi economica: manifestazioni contro l’aumento del costo del carburante, nel Paese sotto pressione per le sanzioni introdotte dagli Stati Uniti dopo lo strappo sull’accordo nucleare. Petrolio razionato, sussidi all’industria petrolifera ridotti e il conseguente aumento del prezzo del petrolio.
Il governo ha risposto alle proteste bloccando internet, impedendo ogni comunicazione verso l’esterno e con una strategia di repressione e violenza su larga scala che avrebbe provocato la morte di almeno 1500 persone. Il governo non ha fornito dati ufficiali sulle vittime, ma le organizzazioni umanitarie ritengono che sia stata la repressione più violenta dalla rivoluzione khomeinista del 1979.
Ragioni analoghe hanno spinto in piazza i giovani libanesi, l’economia al collasso ha spinto in piazza i giovani iracheni. Urlavano la rabbia di vivere in povertà in paesi potenzialmente ricchissimi. Le piazze di questi mesi hanno superato le divisioni confessionali e tribali a favore di una comune richiesta di giustizia sociale e di un potere politico che non sia emanazione di interessi settari.
In Iraq e in Libano le rappresentanze parlamentari sono distribuite su base settaria, e questo non solo negli anni ha irrobustito i partiti confessionali ma ha agevolato la presenza prima e il dominio poi degli attori sciiti.
È stato proprio Soleimani ad arrivare a Baghdad a ottobre, proponendo strategie per sedare le proteste. Dopo il suo arrivo il numero dei morti è cresciuto esponenzialmente. Cecchini sui tetti, sparizioni, torture.
La morte di Soleimani segna un duro colpo per la piazza irachena, per gli attivisti civili che hanno manifestato per mesi e ora sono in posizione molto delicata, perché se celebrassero la sua morte verrebbero visti come sostenitori degli americani.
Le manifestazioni spontanee, pure, dei giovani iracheni hanno rivelano il malcontento ma anche il fallimento delle strutture statali nel garantire benessere ai cittadini, in un Paese che dipende drammaticamente dall’Iran, per gas e elettricità. L’Iraq infatti non possiede la tecnologia per separare gas e petrolio ed è dipendente dall’Iran per il fabbisogno elettrico.
I giovani iracheni hanno chiesto per più di tre mesi lo smantellamento di questa logica, una nuova legge elettorale, elezioni che portino a capo del governo un uomo svincolato dalle influenze estere. Un uomo che non sia come Mahdi, che non tuteli cioè gli interessi di un’altra nazione a scapito dei suoi cittadini. La forza della piazza è stata attraversare e superare le divisioni settarie, proporre una nuova idea di società, chiederla con tenacia, resistere alla repressione.
Esattamente l’idea di società che Soleimani voleva combattere, per continuare il suo progetto di ridisegnare il Medio Oriente a vantaggio della sfera di influenza iraniana. Eliminando chiunque si frapponesse a questo proposito.
E il paradosso è che la sua uccisione crei un’onda lunga dell’aura del martire che anziché ostacolare l’influenza iraniana nella regione la rafforzi, amplificandola. Attraverso azioni violente e l’indebolimento delle piazze democratiche e pacifiche.