
Ai al-Baroodi dice di sé che è un sopravvissuto. Per questo non lascerà Mosul, perché «i sopravvissuti non scappano». Ali non ha provato a fuggire da Mosul durante i tre anni di occupazione, ha vissuto il dominio dell’Isis sulla città, la sua, il luogo dove è nato e cresciuto e dove nei sette anni precedenti all’estate del 2014, che segnò la proclamazione del Califfato nella seconda città irachena, ha insegnato inglese all’Università. «Non sono certo che restare sia la soluzione giusta per me, so però che è l’unica. Non posso certo dire che vivo, posso però dire che respiro attraverso i miei studenti».
Cammina lungo la riva del Tigri, in equilibrio su una conduttura dell’acqua che attraversa le due sponde. Non esita mai, come se la sua condizione di reduce lo rendesse invulnerabile. Sul limite del canale e delle tubature si ferma a osservare le macerie della città vecchia di Mosul, colorate d’ambra dal sole del pomeriggio. Tra le rovine, gli edifici carbonizzati ridotti dalle bombe a scheletri sbriciolati, risaltano tre edifici, uno colore della sabbia, uno celeste e uno verde come il muschio. Sono le case di chi è tornato a vivere in città vecchia, nonostante tutto. Nonostante sotto i massi ci siano ancora resti di cadaveri. Sono passati due anni e mezzo dalla fine della guerra ma i detriti sono ancora lì, hanno disegnato una mappa nuova della parte antica della città, che ha il sapore di una punizione. La velocità con cui Mosul cadde nel 2014 sotto il dominio dell’Isis ha coperto la popolazione di un manto di sospetto e diffidenza ancora difficili da sradicare. Come ti vedi tra dieci anni, Ali? «Più giovane». Lo dice perché sa che nessuno potrà restituirgli quello che Isis gli ha strappato via, e il tempo oggi per lui ha una durata nuova. Ha vissuto quello che non avrebbe voluto vivere, oggi vede quello che altri non vedono. Il tempo per lui ha il sapore della memoria e dell’oblio.

Avevano vissuto da ostaggi per tre anni, dovevano imparare di nuovo a respirare. Alla domanda: quando sei nato? Ali al-Baroodi risponde: «Sei guerre fa». La guerra è l’unità di misura del tempo. Come per i suoi studenti, molti nati negli anni appena precedenti al 2003, l’invasione americana. Un anno spartiacque: «I miei ragazzi hanno vissuto l’infanzia e l’adolescenza in anni aspri e crudeli. Come me, che sono nato nel 1982 subito dopo l’inizio della guerra con l’Iran. Quattro generazioni dopo giriamo ancora in tondo, tra conflitti, e atrocità». Perché la guerra combattuta con le armi è finita, ma la guerra a Mosul c’è ancora, anche se non si vede. «Non cadono più le bombe, è vero. Ma dobbiamo spiegare ai giovani che hanno sulle spalle diciassette anni di guerra e che sentono di essere morti mille volte al giorno, che sono invece gli unici semi di rinascita. Chi muore mille volte al giorno non si può seppellire, va riportato in vita piano piano. Invece il governo una volta ancora fraintende cosa significhi vittoria. Pensa che tutto termini con il conflitto armato, e dopo le parate celebrative, hanno lasciato macerie e vuoti che nessuno sa riempire».
Il grosso a Mosul lo hanno fatto le organizzazioni internazionali e le Nazioni Unite. Il governo di Baghdad ha asfaltato le strade e ripristinato i semafori, lavora alla ricostruzione dei ponti e chiede ai cittadini di tornare a casa. «La ricostruzione non è una pillola da dare a un malato», dice Ali, «perché la guerra qui è una malattia cronica. Servono altre cure». E la gente ha paura di tornare a casa, perché quello che non si può ricostruire coi mattoni e con i fondi internazionali è la sicurezza e un progetto di comunità. Ali al-Baroodi ricorda gli anni della sua infanzia. Negli anni Novanta, il decennio delle sanzioni economiche, la gente aveva fame e il regime di Saddam Hussein si occupava dello sfarzo dei palazzi presidenziali e della costruzione di moschee. Oggi a Mosul molti edifici hanno i ponteggi e le impalcature, qualche bottega ha riaperto, sacchi di spezie e scaffali di frutta e verdura tornano ad animare gli antichi suq, ma gli unici edifici davvero lustrati a nuovo sono le moschee. La gente cammina per le strade, si ferma a osservare le moschee ricostruite, e ridipinte, ma nelle loro tasche non c’è nulla. In città ci sono pochi centri giovanili, per Ali dovrebbero essere la priorità di un governo lungimirante, perché è precisamente nei vuoti che restano dopo le dichiarazioni di vittoria che si depositano le radici dei fondamentalismi futuri. Ogni mattina prepara la lezione e porta un libro nuovo al Campus, il giorno del nostro incontro aveva letto in aula I diari di Anna Frank, per aiutare i suoi studenti a esprimere un dolore indicibile: «Abbiamo il dovere di tenere occupati i ragazzi. Il governo conosce la parola ricostruzione, ma non conosce il vocabolario del supporto psicologico. Ci vorranno almeno dieci anni a bonificare la città vecchia, quanto ci vorrà a guarire i nostri giovani?».
Nella città vecchia di Mosul sono stati distrutti undicimila edifici, le case e le botteghe, gli alabastri e gli archi, gli stucchi, le decorazioni. E la Moschea al Nuri, che della città è stata il simbolo, fatta saltare in aria dai miliziani dell’Isis nel 2017, nelle ultime fasi della guerra. Oggi intorno alla Moschea al Nuri lavorano operai e ingegneri. Ci vorranno cinque anni per ricostruire sia la moschea che il minareto adiacente, “al-Hadba”, il minareto gobbo. Un progetto Unesco, finanziato dagli Emirati Arabi Uniti che hanno donato 50 milioni di dollari. Per riportare la città allo stato precedente alla guerra, però, secondo il governatorato, servono almeno quindici miliardi di dollari. E il governo di Baghdad non stanzia fondi a sufficienza.
Dalla fine di Novembre Mosul ha un nuovo governatore, è Najm Abdullah al-Jabouri, già generale delle Forze di sicurezza irachene, sindaco di Tel Afar dal 2005 al 2008. Lavorò a supporto delle operazioni anti insurrezione con le forze della coalizione prima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove è rimasto fino al 2015. Durante la guerra contro Isis, Jabouri è stato comandante della Nineveh Operation, e con quella carica ha contribuito a guidare la vittoria. Vanta un solido rapporto con il governo del Kurdistan, appartiene a una potente tribù sunnita, è considerato un eroe dalla gente di Mosul. La gente si fida di lui, e il suo ufficio è lo specchio del consenso. L’entrata del governatorato è presidiata da soldati e affollata da cittadini che aspettano di essere ricevuti, nell’anticamera anche delegati dei ministeri di Baghdad, accompagnati da una troupe televisiva locale. Portano fiori e regali che Jabouri frettolosamente fa portare via. Non ama i convenevoli e ha il tono schietto di chi non nasconde i problemi, ha anzi l’audacia di chiamarli per nome. Durante le ultime fasi della guerra, mentre ci ospitava nella caserma, quartier generale delle operazioni, disse di fronte a una tazza di the: «Dobbiamo occuparci delle famiglie dell’Isis. Dedicarci ai bambini, che devono dimenticare quello che sono stati costretti a imparare». Cadevano ancora le bombe, Jabouri in divisa pensava già alla riconciliazione necessaria ma faticosa. Oggi appare meno disinvolto di quanto non lo fosse al fronte, ma non ha perso la virtù dell’onestà. È appena tornato da Baghdad, è andato a chiedere soldi, perché i fondi arrivati finora non sono sufficienti e Jabouri sa che non basta ricostruire i ponti e le moschee per risanare la città, sa che servono scuole e ospedali, cliniche e fogne. «Bisogna ricostruire i ponti della comunità», dice, «e garantire sicurezza ai cittadini».

Mosul, la più grande città sunnita irachena, dalla fine della guerra è pattugliata da forze di sicurezza che sono principalmente sciite, tra queste Hashd al-Shaabi (o Forze di Mobilitazione Popolari) emanazione dell’influenza iraniana nel paese, che continuano a combattere le cellule dormienti di Isis nelle aree desertiche intorno Mosul e che sono accusate di intimidazioni e violenze da chi è tornato a vivere in città. «Abbiamo riaperto molte scuole, non è ancora sufficiente perché i bambini possono frequentare solo tre ore al giorno in tre turni, non ci sono posti per tutti. Né soldi a sufficienza per pagare gli insegnanti. Baghdad manda un miliardo l’anno, una goccia nel mare», dice Jabouri, pensando soprattutto a aree come al-Tanak, tra le più povere della regione, ancora prive di infrastrutture e servizi di base, quartiere delicato che è stato uno dei bacini del reclutamento e una delle zone di resistenza tenace da parte dei miliziani di Isis. Due anni fa mi disse di essere ottimista sul destino degli sfollati e delle famiglie considerate affiliate a Isis, lo è ancora? «Lo sono ancora, sì. E lo sono perché so che è il principale ostacolo del dopoguerra, non maschero il problema e so che va risolto».
Il campo profughi di Hassan Sham, nel Kurdistan iracheno, ospita mille famiglie, circa seimila persone. La maggior parte donne e bambini. Non c’è elettricità a sufficienza e i soldi per gli stipendi degli operatori arrivano a singhiozzo. Questo in un campo profughi significa non avere abbastanza fondi per pagare gli insegnanti, ridurre il tempo che i bambini trascorrono a scuola e gli strumenti che li aiutano a superare il trauma. Oggi nel campo i bambini in età scolare sono più o meno mille, il governo finanzia due soli insegnanti. Ad abitare il campo vedove e orfani, gli uomini sono pochi. Le donne per lo più sono mogli di miliziani o sostenitori dell’Isis e non possono tornare a casa. O perché rifiutate dalle comunità di origine, o perché i servizi segreti iracheni non concedono i documenti o perché temono ritorsioni da parte delle forze di sicurezza e delle milizie. Famiglie come quella di Rashid, che vive qui con sua moglie e i suoi due figli. Vivevano a al-Tanak, faceva il meccanico e suo figlio Adnan aveva tredici anni quando il convoglio dell’Isis è entrato in città, non studiava già più, vendeva libri al mercato di Bab al Tob. Una mattina è uscito per andare a lavorare e non è più rientrato, suo padre ha chiesto di lui e gli ambulanti gli hanno detto che le macchine dell’Isis avevano prelevato i ragazzi del mercato per portarli a una scuola coranica.
Adnan è tornato a casa dopo un mese, suo padre l’ha chiuso a chiave in una stanza, e gli ha fatto rivedere la luce alla fine della guerra. Oggi la famiglia di Rashid e Adnan è sulla lista dei sostenitori dell’Isis nel database dei servizi iracheni. Non possono tornare a casa, né uscire dal campo di Hassan Sham, rischierebbero di essere arrestati al primo check point, Adnan sarebbe processato e condannato a quindici anni di carcere con l’accusa di terrorismo. Così hanno fatto con un suo amico, aveva trascorso tre mesi in una scuola a imparare il corano, è stato condannato a 15 anni di galera. Da una giustizia che oggi non fa distinguo, ma si vendica. La madre di Adnan piange e si dispera, vede sicurezza nel campo, certo. Ma non vede dignità. Se la tua famiglia è classificata non c’è scampo, vivi in una reclusione di fatto. Adnan abbassa la testa, mortificato dal suo dolore e dall’umiliazione che la sua scelta di ragazzino, di tredicenne reclutato dall’Isis, ha provocato. «È colpa mia, lo so», dice, pentito. E non c’è soluzione. O meglio, ce n’è una sola. Il sacrificio del proprio figlio, l’estremo tradimento. L’intelligence irachena ha chiesto a Rashid di consegnare suo figlio. Consegna Adnan, gli hanno detto, e ti restituiamo i documenti, ti facciamo uscire dal campo e tornare a casa e alla tua attività. Abbandona, tradisci, sacrifica. E potrai tornare libero.
L’altra forma della vendetta è la distruzione pezzo pezzo delle famiglie sospettate di connivenza, supporto, semplice prossimità. Rashid ha rifiutato, e ora non vede rimedio, a una condanna che non ha scadenza, ma è uno stato del vivere.