Sempre più infermieri e ostetriche si rifiutano di aiutare chi vuole abortire. Perché «sono stufi», e l'interruzione di gravidanza «non è un bel lavoro». Gli ospedali, così, finiscono per pagare consulenti esterni. Parla il presidente della società italiana di ginecologia. Che propone: «Ripartiamo dai consultori. E dalla Ru486»

«Io sono cattolico. Obiettore. Ma penso che la legge vada applicata. Punto. E nel miglior modo possibile». Nicola Surico è presidente uscente della Società italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo), oltre che professore ordinario e direttore della clinica ginecologica della facoltà di medicina di Novara. Insomma, una persona che conosce da vicino la realtà raccontata dai lettori dell'Espresso nelle loro testimonianze. E che conferma: «Gli obiettori stanno aumentando, è un dato di fatto. Non tanto fra i ginecologi, tra cui la percentuale è più o meno costante, quanto per il resto del personale: ostetrici e infermieri in particolare».

A cosa è dovuto questo aumento?
«Soprattutto a fattori psicologici. Far abortire una donna è un lavoro che non piace a nessuno. Molti miei colleghi dopo un po' non ce la fanno più: si tratta pur sempre di interrompere una vita, e questo pesa. È un dolore traumatico per le pazienti che lo richiedono ma è un problema anche per i medici: ne ho conosciuti molti inseguiti dal rimorso»

L'obiezione di coscienza a cui fa riferimento lei, così, ha però ben poco a che fare con la religiosità.
«Sì, certo: potrebbero essere definiti obiettori di comodo. Ma è la realtà: in molti ospedali ad esempio le interruzioni volontarie di gravidanza vengono messe in coda alle altre operazioni, costringendo il medico ad un'attività in più a fine giornata. Comunque, anche per chi non la sceglie per motivi di fede, l'obiezione è un diritto che va rispettato, esattamente come quello di abortire»

Le esperienze raccolte dall'Espresso mostrano però che quello delle donne è un diritto poco rispettato.
«A me non risulta. Sono stato presidente della Sigo tre anni e non mi sono mai arrivate lamentele relative ai servizi d'assistenza per chi voglia interrompere una gravidanza. C'è qualche problema al Sud, ma gli ultimi dati del ministero confermano che il numero di questo tipo di operazioni è in diminuzione ovunque»

La realtà raccontata dai lettori è molto diversa. Pochissima informazione, stanzini di seconda classe per somministrare la pillola, infermieri che si rifiutano di aiutare ragazze che stanno male...
«Ben vengano queste segnalazioni. Il servizio pubblico ha il dovere di far sì che le cure siano garantite a chiunque. Nel mio reparto a Novara ad esempio siamo tutti obiettori. Ma abbiamo ingaggiato un medico esterno, grazie a una convenzione con un'altra struttura, che opera una volta alla settimana con l'assistenza necessaria. Per le richieste di aborti che abbiamo è più che sufficiente. Casi come quelli vi hanno segnalato non dovrebbero accadere»

Un consulente esterno? E non pesa sul bilancio?
«Molto meno di un'assunzione. È un medico che opera in un altro ospedale»

Da dove si dovrebbe cominciare per migliorare le cose?
«Dai consultori familiari. È lì che dovrebbe esserci il primo contatto fra la donna e il medico, e l'orientamento che oggi sicuramente manca. Ma ancora adesso ci sono regioni come la Lombardia dove mancano un terzo dei centri necessari: ce n'è uno ogni 60mila abitanti, anziché ogni 20mila. E sì che sono luoghi fondamentali, dove dovrebbero essere presentate e spiegate tutte le opzioni possibili per continuare o interrompere una gravidanza, dove le ragazze dovrebbero trovare ascolto ed essere seguite. E con la giusta prevenzione molti aborti, ne sono certo, si potrebbero evitare».

Quando però è necessario, perché in Italia dev'essere vissuto come un calvario?
«Perché ci sono due Stati, non uno, e lo dico da cristiano. Da cattolico che non accetta, però, che una legge non venga applicata. Penso in particolare all'introduzione della pillola abortiva. Un metodo molto meno traumatico dell'intervento chirurgico, diffusissimo all'estero, e ancora osteggiato da noi; tanto che in tre regioni, le Marche, l'Abruzzo e la Calabria, ancora non si applica. Per l'introduzione della Ru486 ci sono state tante e tali resistenze in Parlamento che oggi abbiamo una legge che non funziona»

È nella legge quindi il motivo per cui gli ospedali sono così restii a somministrare la pillola?
«Sì, perché il testo prevede l'obbligatorietà del ricovero della donna fino all'espulsione del feto. Quest'obbligo è un ostacolo chiarissimo all'introduzione della Ru486: ogni giorno di degenza costa a una struttura, mediamente, mille euro. Con i tagli alla sanità abbiamo sempre meno posti disponibili, e ci troviamo a volte a lottare per avere letti liberi per operazioni urgenti e gravi. Eliminare questo vincolo significherebbe aumentare la disponibilità degli ospedali a ricorrere all'aborto farmacologico. Anche perché quello chirurgico richiede comunque l'uso della sala operatoria, mentre la pillola potrebbe essere somministrata anche negli stessi consultori, sotto osservazione, o in strutture dedicate, a bassa soglia».

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