«Io, burattinaio dei rider, vi racconto come controlliamo le consegne e i fattorini»

La geolocalizzazione, la competizione. Il cottimo. Parla per la prima volta un (ex) controllore dei ragazzi che ci portano il cibo a casa. «Sul mio schermo arrivava tutto: anche la velocità con cui i fattorini stavano pedalando. Mi sembrava di pilotare dei droni»

Nel database sono chiamati i fantasmi. Si tratta dei fattorini fermi, pronti a prendere una nuova comanda. E a scattare al click, sostituendo quanti sono già in corsa. Sulla mappa sono indicati da un puntino grigio. In azzurro invece spiccano i rider disponibili: quelli che non sono in servizio, ma restano comunque arruolabili nell’immediato. Per esempio se qualcuno, durante il turno, finisce per essere in ritardo. E bastano solo otto minuti d’attesa imprevista per far scattare una prima allerta, un messaggio, una chiamata. Tutto ok? I fantasmi.

V. ha lavorato per sei mesi nella centrale operativa di Foodora a Berlino. Era un “dispatcher”, ovvero un responsabile degli ordini, incaricato di seguire in tempo reale le corse che recapitano pasti a domicilio in moltissime città italiane. È il servizio di cui Foodora è uno dei leader mondiali: la società che la controlla, “Delivery Hero”, è un colosso che batte un milione di scontrini al giorno da oltre 200mila ristoranti in 40 paesi. Party pre-natalizi compresi, i menu vengono smistati minuto per minuto negli uffici dalla centrale di Berlino dove V. ha lavorato fino al 2018.

Foodora ha dismesso da poco le attività in Italia. Ma Delivery Hero mantiene comunque un piede a Roma: all’inizio dell’anno il gigante delle spedizioni aveva investito infatti 51 milioni di euro nella catalana Glovo, di cui è oggi uno dei principali azionisti. È a Glovo che ha ceduto le attività italiane. Non i lavoratori però: i duemila fattorini che prima consegnavano per Foodora sono stati liquidati con un invito a ricominciare da zero, candidandosi a trasportare sushi a cottimo per l’ormai ex concorrente.

Nel frattempo alcuni incidenti, anche gravissimi, che hanno colpito i lavoratori del settore, insieme al nulla di fatto con cui si è chiuso il tavolo avviato al ministero dello Sviluppo dal vicepremier Luigi Di Maio, hanno fatto riaffiorare con urgenza il problema, ancora non risolto, delle tutele necessarie per gli occupati digital-reali della distribuzione (e non solo). E ora sulla questione interviene una nuova, inedita, vertenza. Che riguarda il côté Grande Fratello del caporalato digitale.

Il primo compito di ogni dispatcher, spiega V., è risolvere problemi: clienti che non si trovano, ristoranti che hanno la cucina sottosopra, ma anche e soprattutto inceppamenti dello stesso sistema. Deve, ad esempio, aggiustare il tiro dell’algoritmo (che a Foodora si chiama “Hurrier”, “colui che va di fretta”, come la società canadese che lo aveva elaborato) quando il meccanismo automatico attribuisce consegne in modo non efficace.

«Io seguivo nel dettaglio gli itinerari dei rider, sapevo la velocità media con cui stavano pedalando o guidando, l’intero storico delle commissioni che avevano effettuato», racconta in esclusiva per L’Espresso, a condizione di anonimato: «Se pioveva forte, oppure c’era un tragitto molto lungo da coprire, o ancora un piatto da ritirare in un locale che sapevamo essere frequentemente più lento del dovuto, potevo assegnare delle “doppie”, cioè un compenso doppio per quella singola consegna, considerata più onerosa».

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L’ambiente era informale, in ufficio, anche se non poteva distrarsi molto dal monitor, ricorda, vista la fretta senza sconti con cui andavano portate a termine le missioni. «Su uno dei computer tenevamo sempre aperte le chat con i fattorini, via telegram o whatsapp. Dopo un po’ li conoscevo quasi personalmente», continua: «Anche se a volte il mio ruolo era dissociante: sembrava di pilotare un drone, con le mappe aperte sulla città o sul singolo quartiere, su una via, o una spedizione, e tutte le conversazioni telematiche aperte contemporaneamente».

Come se i fattorini non fossero altro che punti in movimento su un monitor, «mentre io ero spesso l’unica voce con cui avevano un contatto umano dentro l’azienda, al di là delle notifiche dell’applicazione o delle mail del management. Mi ricordo una ragazza di Roma che aveva voluto sfogarsi, una sera: mi diceva che era stanchissima, e doveva lavorare per pagare le riparazioni del motorino, rotto per tre volte facendo consegne. Altri ci chiedevano consigli, altri ancora ci sfottevano. In generale cercavano almeno un po’ di contatto reale».

Perché per il resto, la loro vita professionale aveva e ha come unica interfaccia l’app installata sul telefono personale, dotazione necessaria per iniziare a correre. Dall’altra parte del rider, vista dalla bici o dal motorino, c’è la società, con il suo algoritmo per la distribuzione dei clienti e con i dispatcher. Che si trovano così in prima linea nelle contraddizioni del business. Ad esempio ad affrontare uno degli elementi più controversi, forse, dell’attuale economia della fame: la continua creazione di un esercito di riserva, di precari in competizione fra loro per ottenere una commessa in più, un frammento di speranza flessibile in più. «Spesso capitava avessimo molti più fattorini disponibili che non ordini. Per esempio durante i turni che iniziavano sul presto, alle sette di sera», racconta V.: «Allora le persone iniziavano a chiamarmi dicendomi “dai, dammi un ordine, per favore”. Ti sentivi impotente». C’è un altro elemento che V. trovava disturbante: la possibilità di veder segnate sulla mappa le posizioni di lavoratori assolutamente non attivi. Richiamabili con un click, ma non in turno. Ugualmente tracciati?

La società non ha risposto alle domande dell’Espresso riguardo alle osservazioni simili diventate ora materia di un reclamo al Garante della privacy, a Roma. La segnalazione, presentata dall’avvocata che segue la causa dei rider a Torino, Giulia Druetta, e da un esperto di privacy, Giovanni Maria Riccio, riguarda soprattutto due punti.

«Il primo sono le informazioni, assolutamente non adeguate secondo noi, che venivano date ai rider rispetto alle modalità con cui avviene la loro geo-localizzazione. Alcuni elementi che abbiamo raccolto sembrano indicare, tra l’altro, che la loro posizione veniva rilevata anche fuori dall’esercizio effettivo del turno», racconta Riccio, che da avvocato e professore all’università di Salerno ha curato decine di pubblicazioni sulla protezione dei dati personali: «Il secondo riguarda invece le chat dove venivano scambiati messaggi aziendali. In un contesto, a nostro avviso, di generale scarso rispetto della dignità dei lavoratori».

Può sembrare una questione laterale, quella della geo-localizzazione pervasiva dei fattorini digitali. Ma è invece al centro della difficile definizione stessa di quanto sia “autonomo”, e quanto invece subordinato, il mestiere di chi viene reclutato attraverso le piattaforme online. In Italia due tribunali, prima a Torino (di cui è atteso l’appello per il 9 gennaio) e poi a settembre a Milano, si sono schierati a favore dell’interpretazione fornita dai grandi gruppi come Foodora, Justeat o Deliveroo, secondo cui i pony sono liberi di scegliere se farsi carico o no di un ordine, e quindi vanno considerati liberi professionisti.

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In Francia però, a novembre, la Corte di cassazione ha rispedito in appello una sintesi simile. Poiché la sostanza prevale sulla forma, scrivono i giudici francesi, nel diritto del lavoro, allora a ben guardare c’è qualcosa che non torna rispetto a quanto accade attraverso queste app.

I tre cardini della subordinazione, infatti, a Parigi come a Roma, sono i poteri di organizzazione, controllo e disciplina, esercitati da parte di un’impresa sui suoi sottoposti. «E se andiamo a vedere come funzionano nel concreto queste piattaforme, è difficile pretendere si tratti di sola intermediazione», discute Antonio Aloisi, ricercatore post-doc dell’Istituto universitario europeo di Firenze, che sta dedicando al tema numerosi nuovi studi: «Basta osservare la necessità che hanno, per funzionare, di garantire un servizio sicuro, uniforme e standard». È quello che pubblicizzano no? «Ora, se tutti i lavoratori – e penso al settore delle consegne come a molti altri», continua Aloisi: «Fossero effettivamente liberi e autonomi di scegliere se, come e quando lavorare, come potrebbe reggersi il business?». Sarebbe un caos. «Quello che accade è l’opposto: le società raccolgono un’enorme quantità di dati, hanno metriche dettagliatissime sui flussi, sulle richieste, sul mercato e sulle risposte da darvi. Potrebbero insomma facilmente, in teoria, prevedere offerta e domanda», ragiona il ricercatore: «Ma anziché usare queste informazioni per assumere con le tutele necessarie uno zoccolo duro di lavoratori, le usano per stabilire dei ranking interni fra una platea di “disponibili”, per organizzare occupati flessibili». Arrivando al paradosso: «anziché più libertà, i fattorini finiscono per averne meno», conclude: «Perché spostandosi da una società all’altra perderebbero tutta la “carriera digitale”, di affidabilità, che vi hanno costruito dentro».

La tecnologia sottile con cui scontrini e contratti, mance e menu, vengono gestite, non aiuta spesso a comprenderne le implicazioni. «Il rapporto con la società sembra diretto. La semplicità con cui inizi a lavorare, attraverso l’app, con cui accetti condizioni, informative, spazi, cominciando subito a fare consegne, rende tutto molto immediato. Mosso quasi più da impulsi che da ragionamenti consapevoli», riflette Angelo, un rider di Milano che insieme ad altri ha dato vita al progetto “Deliverance”, un sindacato autonomo di fattorini che ha stilato all’inizio di dicembre un decalogo di richieste per la dignità dei rider. All’interno del quale tornano, oltre alle garanzie lavorative che mancano, anche le questioni che riguardano il controllo.

Il documento chiede infatti il «diritto alla disconnessione» fuori dal servizio, la trasparenza sui dati raccolti, sul tracciamento, sulla possibilità per ognuno di sapere quali elementi valuti l’algoritmo nel momento in cui attribuisce individualmente le consegne. La tracciabilità dei comportamenti, accettata da milioni di consumatori digitali in cambio di servizi gratuiti, può diventare infatti più distopica all’interno di un rapporto di lavoro. «Pochi, banalmente, sospendono ogni volta che finiscono la geo-localizzazione interna all’app», racconta Angelo: «Io stesso tolgo del tutto il Gps, dal telefono, quando non sono in turno. Mi impedisce di usare altri sistemi, ma mi sento più tranquillo».

V. arrivava in ufficio mezz’ora prima del momento in cui da case o uffici sarebbero iniziate le richieste di piadine e polli fritti. Si sedeva, controllava che i fattorini si stessero effettivamente avvicinando al luogo di partenza del turno, e cominciava il suo sorvolo sugli ordini. Anche i dispatcher, per mangiare, usavano Foodora. «La “mensa” era un buono da spendere sulla piattaforma stessa», ricorda. Dopo un po’, ha iniziato a portarsi i panini da casa. A giugno Delivery Hero ha festeggiato 340 milioni di euro di fatturato, ma risultati ancora in salita. Non tanto per il costo del personale. Quanto per il peso del marketing: che vale 180 milioni di euro a semestre. I servizi di delivery ne pesano solo 140. Difficile per un rider, pensare di valere meno di uno spot.

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