Di fronte al dramma delle carceri il governo vara per decreto la repressione di proteste e dissenso

Nel nome della sicurezza troppo spesso si compiono misfatti: ultima prova eclatante è il decreto legge pubblicato l’11 aprile sulla Gazzetta Ufficiale in cui sono presenti mostruosità giuridiche senza neppure la giustificazione di necessità e urgenza come richiede la Costituzione. Una prova di arroganza, di disprezzo del Parlamento e di violenza istituzionale. Vale la pena concentrarsi su un punto particolare, cioè la criminalizzazione della resistenza passiva e della nonviolenza in carcere con la previsione di condanne fino a otto anni. Anni di galera per il mancato rientro in cella dopo l’ora d’aria, la battitura delle sbarre, il rifiuto del carrello del cibo e delle terapie, forse persino per il digiuno. Azioni certamente legate alla denuncia delle condizioni di vita inaccettabili a causa del sovraffollamento e per rivendicare diritti fondamentali. Questa scelta dal punto di vista simbolico rappresenta un messaggio assai pericoloso, non solo per i detenuti ma per le associazioni della società civile, infatti configura un incentivo al ricorso ai mezzi violenti per contrapporsi alle misure liberticide. È quindi conseguente la costituzione di un Gruppo intervento operativo (Gio) per sedare proteste e rivolte e l’acquisto per la Polizia penitenziaria di 18.700 scudi antisommossa, di 2.400 nuovi sfollagente e di 10.200 caschi per difendersi o per colpire.

 

Intanto, troppi detenuti continuano a morire; già 28 sono i suicidi avvenuti quest’anno e le altre cifre della catastrofe sono davvero impressionanti. Non si può chiedere ai detenuti di esporsi pericolosamente. Occorre che sorga un movimento di opposizione alle leggi ingiuste e razziste con forme originali di obiezione di coscienza. Ad esempio, nel Risorgimento e nella Resistenza fu praticato il boicottaggio fiscale del tabacco, oggi si potrebbe mettere in crisi il gioco d’azzardo. È stimolante la lettura di un giornale del Partito Socialista Italiano, “Il Terzo Fronte”, scritto da Ignazio Silone nel 1942 in Svizzera con un invito a una azione a oltranza di disubbidienza civile. La disobbedienza civile veniva lì spiegata come un fatto di coscienza individuale ma che, se praticata da un gran numero di persone, si sarebbe rivelata come un’arma politica d’immensa potenza, un’arma capace di paralizzare l’apparato repressivo della dittatura, una forma di lotta incruenta e accessibile a tutti. La parola d’ordine Disubbidire veniva declinata in suggerimenti di precisi comportamenti: ignorare le leggi e agire come se non esistessero; applicare alla lettera le leggi realizzando il contrario di quanto voluto dall’autorità; non pagare le tasse, la luce elettrica, il gas o pagare a un falso indirizzo; avanzare reclami, proteste, ricorsi a ogni occasione, mettere in moto senza necessità o per futili motivi i pompieri, la polizia, i giudici; lavorare male, nel caso di impieghi statali. Alcuni suggerimenti per i lavoratori: gli operai avrebbero dovuto sabotare la produzione di guerra, i ferrovieri e i tranvieri ritardare i trasporti. Ignazio Silone argomentava: «La disobbedienza civile può dare un senso ideale alla nostra lotta di liberazione. Sarà un fatto nuovo nella storia del nostro Paese. Il Partito Socialista chiede agli Italiani qualcosa d’insolito, ma non d’impossibile. Attraverso la disobbedienza civile l’individuo esce dall’atomismo pauroso».

 

Un’indicazione di metodo da far rivivere in tempi di ferro e fuoco. Uscita di sicurezza.

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