Il decreto sicurezza rende fuori legge il settore della cannabis light, che fattura mezzo miliardo l’anno e dà lavoro a 30mila persone. Rimaste spiazzate senza alcun preavviso

Con il governo Meloni la canapa va in fumo

Il futuro della cannabis light italiana è a rischio: dopo l’approvazione del decreto sicurezza entrato in vigore il 12 aprile scorso, l’intera filiera è stata stravolta. Nonostante un giro d’affari da mezzo miliardo e circa 30mila addetti, da un giorno all’altro chi coltiva, lavora o distribuisce infiorescenze di canapa industriale si è trovato in mano una sostanza considerata droga. E potrebbe essere perseguibile per reati quali spaccio o traffico di sostanze stupefacenti.

 

Non sono quindi bastati gli studi che dimostrano come il cannabidiolo (Cbd), una delle principali componenti della cannabis, non possa essere considerato un principio psicoattivo o stupefacente, e che al contrario, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, è una sostanza sicura, con valore medico, che non crea dipendenza e non provoca danni alla salute. A niente sono serviti i report che evidenziano la portata economica e occupazionale della filiera agroindustriale della canapa. Il governo Meloni ha tirato dritto e con l’approvazione del decreto ha paralizzato un intero comparto. Con l’articolo 18 ora è consentita la produzione di infiorescenze contenenti Cbd, solo se destinate al “florovivaismo professionale”, vietandone ogni altro uso, dal commercio alla lavorazione alla detenzione.

 

«Il decreto spezza le ali a tanti giovani e li costringe ad andare via dall’Italia», commenta Mattia Cusani, presidente di Canapa Sativa Italia. «Questo settore ha sconvolto qualsiasi statistica sotto diversi fronti: recupero di borghi abbandonati, giovani che ritornano all’agricoltura, nuovi posti di lavoro. Abbiamo battuto tutti i record: forse è questo che spaventa la politica». Non solo, l’Italia è uno dei migliori posti al mondo per coltivare canapa, sia per il clima, sia per le competenze di cui sono in possesso gli agricoltori. Dimostrazione di questa eccellenza del made in Italy è il fatto che l’80 per cento della canapa che circola in Europa viene prodotta nel nostro Paese.

 

Le aziende non hanno avuto neanche il tempo per adeguarsi a questo nuovo decreto. Normalmente quando un prodotto diventa illecito si ha un termine per smaltire le scorte anche solo distruggendole: con questo provvedimento, invece, il divieto è stato operativo dal giorno successivo alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

 

Quindi, chi lavora con la cannabis light, oltre a essere considerato uno spacciatore, si è trovato a non sapere cosa fare. Chiudere i battenti e aspettare o delocalizzare la produzione, non ci sono altre possibilità. Alcuni hanno deciso di resistere, ma per evitare denunce per possesso di droga sono stati costretti a volare in Repubblica Ceca, in Francia, in Lussemburgo. È quello che ha fatto la Roma Cbd Genetics, azienda agricola dedita al florovivaismo e alla floricoltura di canapa industriale, che collabora con le più grandi aziende italiane ed estere. In quattro mesi, da gennaio a oggi, ha fatturato 200mila euro. Il lunedì dopo l’entrata in vigore del decreto ha caricato tutto quello che riguarda la parte produttiva di infiorescenza e derivati su un tir e ha spostato il suo lavoro in un’azienda al confine tra Francia e Lussemburgo. «Faremo avanti e indietro, ma comunque il lavoro dell’infiorescenza rimarrà lì fino a che non solo il decreto cadrà, ma anche fino a quando non metteranno mano alla legge 242/2016 in modo da definire una destinazione d’uso dell’infiorescenza», spiega Dario Proietti, 35 anni, uno dei tre soci dell’azienda. Nella campagna romana, il vivaio di Roma Cbd Genetics, continua a essere aperto. Qui producono le piante che poi vengono coltivate all’estero. «Al momento abbiamo in serra 1.200 piante il cui mantenimento costa circa 30mila euro», dice Proietti, attivo nel mondo della canapa dal 2017, dopo che in Italia è entrata in vigore la legge che ha consentito di iniziare a produrre, lavorare e vendere prodotti a base di cannabis light. È un professionista del settore: oltre a fare le piante, studia le genetiche e fa ricerca: «Non sono disposto a cambiare lavoro, mi stanno costringendo ad andarmene». 

 

Chi non ha la possibilità di delocalizzare sta aspettando, ma non può pensare di riconvertire l’azienda, come ha suggerito qualche politico, sia perché si tratta di attrezzature specifiche per la coltivazione della canapa – e quindi servirebbero dei nuovi investimenti – sia perché «di questo passo anche coltivare l’insalata potrebbe diventare illegale», ironizza Cusani.

 

Stesso discorso per i grow shop, negozi specializzati nella vendita di prodotti, articoli e attrezzature per il giardinaggio e la coltivazione in generale, con un focus particolare verso la marijuana legale e la canapa. «Non abbiamo ricevuto alcuna direttiva ufficiale dalle autorità competenti riguardo alle modalità di eradicazione del nostro settore e non c’è stata neanche l’ombra del tavolo di confronto che il governo ci aveva promesso», dice Simone Lelli, proprietario del grow shop PiantaGrane di Frascati dal 2016, che parla a nome del Comitato Negozianti Italiani Canapa (Nic). Il suo negozio è ancora aperto, ma solo perché vende anche articoli per la coltivazione. «Ho tolto tutti i prodotti contenenti Cbd», spiega, riconoscendo però che tenere aperto il negozio senza poter vendere i fiori, che è l’introito maggiore, ha poco senso. «Ci aspettiamo che vengano emessi dei decreti attuativi con delle specifiche, mi sembra assurdo che da un giorno all’altro si dichiari illegale retroattivamente un prodotto su cui ho già pagato le tasse».

 

Il paradosso di questo decreto è che il Cbd non smetterà di circolare in Italia: verrà semplicemente importato. Il consumatore continuerà ad acquistarlo, ma da rivenditori esteri. «D’altra parte l’Italia non può sottrarsi agli obblighi dell’Unione europea. Il principio del mutuo riconoscimento ammette che se in altri Paesi si producono determinati prodotti, questi poi legittimamente entrano anche nel territorio interno, senza ostacoli», spiega Stefano Masini, responsabile dell’area ambiente e territorio di Coldiretti, tra le associazioni del settore contrarie all’articolo del nuovo decreto. «Serve una particolare attenzione alla conformazione del mercato europeo. Non solo quindi le nostre imprese sarebbero amputate, ma anche sottoposte a una concorrenza sleale».

 

Resta fuori da questo decreto tutto quel mondo che riguarda la cannabis terapeutica, che potrebbe però subire impatti indiretti. I pazienti cannabici con prescrizione medica, riconosciuti per le loro patologie dal Servizio sanitario nazionale, continueranno ad avere le loro cure con farmaci importati dalle aziende farmaceutiche estere (con la sola eccezione dell’Istituto farmaceutico militare di Firenze). Sono a rischio invece tutti quelli che utilizzavano il Cbd anche come palliativo per patologie non riconosciute dal Ssn: oggi trovano l’iter di ottenimento della prescrizione troppo oneroso. Tra visite e analisi, il costo medio per un trattamento mensile standard è di circa 300 euro. Non tutti hanno la possibilità, o sono interessati, a pagare tale cifra per un farmaco autorizzato. Il nuovo decreto toglie quindi un’opportunità lecita ed economica di acquisto — precedentemente disponibile attraverso canali meno costosi e privi di burocrazia — che potrebbe portare coltivatori, commercianti e consumatori a cercare vie illegali, con il rischio di alimentare il mercato nero.

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