Rafael Caro Quintero era il capo del maggior cartello messicano. Poi è stato in carcere per 28 anni, accusato del misterioso omicidio di un agente della Dea. Adesso è di nuovo latitante. Ma chiede perdono al suo paese e desidera la “pace”

narcos
A volte c’è una nota rosa anche nella vita del criminale più efferato, un cedimento che umanizza il personaggio sbiadendone gli orrori. Per Rafael Caro Quintero è una ragazza di 17 anni di cui si innamorò perdutamente quando ne aveva 32 ed era il re indiscusso della droga in Messico, fondatore del Cártel de Guadalajara con cui aveva cambiato le regole del narcotraffico, prima di lui quasi soltanto colombiano.

Il Narco de narcos, lo chiamavano, o El Príncipe e, più tardi, Don Rafa, diminutivo che gli affibbiarono nel carcere di massima sicurezza di Guadalajara, in cui trascorse gli ultimi dei 28 anni che scontò a partire dal 1985, quando un tribunale lo condannò a 40 anni. Rimesso in libertà per un vizio di forma nel 2013, Caro Quintero ha visto bene di sparire prima che un altro tribunale invalidasse la scarcerazione, e da tre anni vive come uccel di bosco nel Nord del Messico, dove è riapparso di recente per smentire di aver ripreso a occuparsi di narcotraffico. «L’unica cosa che voglio è la pace», ha dichiarato a una cronista del settimanale “Proceso”: «Chiedo perdono al Messico per gli errori che ho commesso, però ho pagato per le mie colpe».

La ragazza si chiamava Sara Cosío ed era la nipote del presidente del Partito rivoluzionario istituzionale (Pri) di Città del Messico, di una famiglia tra le più importanti del Paese. Dicono i cuori teneri che proprio a causa sua El Príncipe fu catturato, il 4 aprile del 1985, in una finca lussuosa in Costarica in cui l’aveva portata dopo averla rapita. La ragazza a un certo punto aveva chiamato i genitori per spiegare che era davvero innamorata del narco, e intercettando le telefonate si risalì al loro nascondiglio a tre chilometri dall’aeroporto, con tanto di piscina e chalet. Quando uno spiegamento di agenti irruppe nella camera in cui dormiva Caro, si trovò di fronte la ragazza seminuda che balbettava: «Sono Sara Cosío. E questo è Rafael Caro Quintero».

Forse però anche senza Sara lo avrebbero catturato. Secondo molti, infatti, la fine del Cartello di Guadalajara si deve non a quel rapimento ma all’omicidio di Enrique Camarena, uno dei più brillanti agenti della Dea, un ex marine che aveva sferrato molti colpi a Caro: la vendetta dell’Agenzia Antidroga, furiosa per la sua morte, fu implacabile. 
Enrique Camarena
In pochi mesi la cosiddetta Operación Leyenda assicurò alla giustizia El Príncipe, ras di un impero illegale e azionista di trecento imprese che anche dal carcere ha continuato a gestire attraverso l’ex moglie e i quattro figli. Per inciso, sulla vicenda Camarena il regista Oliver Stone sta realizzando un film. Dicono adesso non sia stato lui, ad ammazzare Camarena, e alcuni testimoni raccontano abbia pianto quando gli hanno detto della sua morte. Aveva capito che quel delitto sanciva la sua fine, anche se non è facile immaginarlo a lamentarsi, duro e sarcastico com’è e con i nervi a posto, «un freddo psicopatico» secondo i poliziotti che gli hanno dato per anni la caccia.

«È un uomo intelligentissimo e con un’ironia micidiale», racconta a “l’Espresso” il giornalista Jesús Lemus, che ha passato gli anni dal 2008 al 2011 nella cella accanto alla sua a Puente Grande, condannato per traffico di droga fino alla sentenza di appello che l’ha assolto. Ai tempi dell’arresto, Lemus era il direttore di una rivista il cui torto, ci racconta, era stato di aver rivelato le collusioni tra governo e narcos nello Stato di Michoacán. Per vendicarsi, lo avevano arrestato con una accusa falsa, e da quando è stato messo in libertà gira in incognito da uno Stato all’altro a causa delle minacce di morte. «Caro Quintero era una persona molto amabile, di poche parole ma acuto e informato, appassionato di politica. Se fosse nato in un contesto diverso e avesse studiato sarebbe stato un ottimo governante», aggiunge.

Non che si sappia molto dell’infanzia del narco, persa com’è tra storie tutte uguali di miseria e lotta quotidiana nelle montagne di Sinaloa in cui è nato, nel 1952. A 13 anni rimase orfano e gli toccò farsi carico dei dieci fratelli coltivando fagioli e grano, a 16 anni lavorò come autista di camion per poi scoprire che coltivare marijuana era infinitamente più redditizio. Quando la Operación Cóndor si abbatté sul narcotraffico, scappò a Guadalajara, dove fondò con Miguel Ángel Félix Gallardo ed Ernesto Fonseca Carrillo uno dei primi e micidiali cartelli messicani. Era l’inizio degli anni Ottanta e Caro ci mise poco a costruire un impero accreditandosi come un signore della droga al cui servizio c’erano non solo migliaia tra sicarios e aiutanti ma anche gran parte delle forze di polizia a partire dallo stesso Dsf, reparto speciale dell’esercito a cui versava somme folli perché chiudesse un occhio. Fu a causa sua che Guadalajara, terra tranquilla prima del suo arrivo, si trasformò in una specie di Far West. Caro Quintero e i suoi uomini giravano su pick up o su Grand Marquis, cappelli da vaquero e anelli d’oro, abitavano in ville hollywoodiane e organizzavano feste sontuose con cocaina e ragazze che conquistavano a botte di brillanti e auto di lusso. Anche a Sara Cosio sembra che Caro avesse regalato un’auto ma lei, più che dei regali, si era innamorata della persona, l’uomo temuto ma capace di dolcezza. Non fu la prima a perdere la testa per il bandito, però fu l’ultima prima dell’arresto.

I primi anni in carcere non furono una gran tortura. Stando ai documenti declassificati dell’intelligence, Caro Quintero era riuscito a farsi allestire una suite con soggiorno e sala da biliardo, e a ospitare feste danzanti con bande che suonavano per dodici ore di fila. Si procurava anche coca e whisky. Diceva di non essere un narco ma di limitarsi a coltivare marijuana, di non disporre di grandi ricchezze (in realtà, il suo patrimonio al momento dell’arresto ammontava a 600 milioni di dollari) ma soprattutto di non aver ucciso Camarena. «Sono capitato nel posto sbagliato (dove lo ammazzavano, ndr), ma la mia partecipazione si riduce a questo». Nessuno gli ha creduto fino a quando, qualche settimana fa, l’ex direttore della Dea a El Paso, Phil Jordan, ha denunciato in un’intervista che a liquidare Camarena era stata la Cia, sia pure con la complicità del Cártel de Guadalajara. Motivo: pochi mesi prima Camarena aveva scoperto che i soldi dei cartelli erano usati dalla Agency per finanziare la guerriglia dei contras in Nicaragua, e aveva proposto di confiscarli. All’epoca, Caro Quintero era proprietario di molte piantagioni di marijuana e tra le più importanti c’era il rancio El Bufalo, mille ettari nello Stato di Chihuahua in cui lavoravano più di diecimila persone. El Príncipe aveva raccontato a Camarena tutti i dettagli di quel business, per dire quanto si fidava. La copertura di Camarena era un lavoro da agente della Dirección Federal de Seguridad, che assicurava sottobanco protezione ai narcos, e aveva dato molte prove di lealtà, tanto che lui e Caro erano così amici da chiamarsi “compadre”. Per questo quando 450 militari fecero irruzione a El Bufalo dove distrussero 8mila tonnellate di marijuana e costrinsero alla fuga i dipendenti, il narco ci mise un po’ a capire a chi doveva la soffiata. «Il tradimento si paga», hanno spiegato alcuni abitanti ai giornalisti che si spingono in quella zona, povera e abbandonata da quando il “rancho” è stato smantellato.

caro quintero
Nella cornice miserabile di una casupola, nel luogo sconosciuto in cui ha concesso l’intervista, magrissimo e poveramente vestito, Caro Quintero sarebbe convincente quando assicura che è solo un vecchio stanco che ha chiuso con la droga. Non fosse che da quanto è apparso lui è ripresa la guerra nelle zone che controllava, e che l’intelligence gli attribuisce l’offensiva contro il Cartel de Sinaloa, in combutta con i Beltrán Leyva, nemici acerrimi del Chapo. Pare si debba agli uomini di Caro l’assalto alla casa della madre di Guzman, nel paesino di Tuna dove 150 uomini armati hanno ammazzato tre persone e costretto alla fuga molti abitanti.

A non credere al 63enne Príncipe è soprattutto la Dea, che ha messo sulla sua testa una taglia di cinque milioni di dollari, mentre il governo degli Stati Uniti continua a insistere per quell’estradizione che i messicani hanno sempre negato. Difficile capire se Caro sia sincero. Sposato con una ex reginetta di bellezza che ha conosciuto in carcere, oppone alla sua immagine una famiglia molto glamour, visto che i figli non spacciano. Però lavano denaro sporco, almeno secondo le accuse del Dipartimento del Tesoro Usa, si occupano di aziende che hanno comprato con i soldi della droga.

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