In questo mondo non vi è nulla di sicuro tranne la morte e le tasse". Era Benjamin Franklin (sì, proprio l'inventore del parafulmine) a scrivere questa ovvietà ironica nel 1789 in un paese come gli Stati Uniti, ove il rigore fiscale e la coscienza collettiva sono da sempre un dato reale e non una libera variabile, come accade invece da noi. Sul tema in questi ultimi mesi sono state dette e scritte valanghe di considerazioni, mentre evasori, corruttori e corrotti continuano gioiosamente a imperversare. Sembra una voce proveniente da un paese remoto quella di Luigi Einaudi che proclamava: "Il denaro dei contribuenti deve essere sacro".
Non saprei cos'altro aggiungere a quanto si è già sufficientemente analizzato e deprecato. Vorrei solo introdurre un "diverso parere" di indole religiosa che, quindi, dovrebbe toccare innanzitutto il mondo ecclesiale per un maggiore rigore in questo ambito, ma che può essere significativo per tutti. Infatti, è indubbio che Cristo, pur appartenendo sostanzialmente a una fascia debole della società, sia stato uno scrupoloso contribuente.
Paga le tasse per il tempio col discepolo Pietro (Matteo 17, 24-27), un episodio immortalato da Masaccio in S. Maria del Carmine a Firenze; tra i suoi apostoli sceglie un funzionario delle imposte, Matteo-Levi, in una scena che Caravaggio ha reso indimenticabile nella tela di S. Luigi dei Francesi; ha invitato a versare senza scusanti il tributo imperiale, formulando quel principio lapidario del "rendere a Cesare quello che è di Cesare" (Matteo 22,21); esige la conversione e il risarcimento da parte dei corrotti, come avviene per l'alto funzionario Zaccheo (Luca 19,1-10).
A questo punto per il cristiano l'obbligo fiscale non è più riducibile a una mera questione legale, sanzionabile solo in sede civile e penale. È un impegno anche morale e di coscienza sul quale - bisogna riconoscerlo - la predicazione e la catechesi ecclesiale non si sono sprecate più di tanto. Al contrario di quanto ha fatto l'apostolo Paolo che in un importante paragrafo del suo capolavoro, la Lettera ai Romani (13,1-7), raccoglie con vigore il monito di Cristo: "Per questo dovete pagare i tributi: coloro che si dedicano a questo ufficio sono funzionari di Dio (sic!). Rendete, dunque, a ciascuno il dovuto: a chi il tributo, il tributo, a chi le tasse, le tasse".
Siamo attorno all'anno 58 e l'erario romano era quello di Nerone imperatore. Nello stesso brano l'Apostolo sottolinea che la questione non è semplicemente civile e legale, perché l'obbedienza all'autorità deve avvenire "non solo per timore della punizione, ma anche per ragioni di coscienza". C'è, quindi, una motivazione "pesante", legata alla morale e alla stessa fede cristiana, se è vero che i responsabili della gestione economica pubblica sono "funzionari di Dio", e un concetto analogo sarà ripreso dallo stesso san Pietro nella sua Prima Lettera (2,13-17).
Detto questo con fermezza contro la sfacciata schiera di evasori o elusori, talora cristiani praticanti, si devono subito denunciare - come facevano aspramente i profeti biblici (si legga il libretto di Amos!) - i gestori della cosa pubblica che sprecano risorse, se le accaparrano a fini privati, le amministrano in modo inetto, si lasciano corrompere spudoratamente. È da questa sorgente velenosa che cresce il vertiginoso livello della pressione fiscale, ingiustamente pesante proprio sugli onesti e sui deboli. Coloro che non pagano le tasse e coloro che sperperano il denaro pubblico sono entrambi immorali, e i primi devono finirla di accusare i secondi per giustificarsi. Entrambi devono ritornare a un'etica sociale e politica, nella consapevolezza che quanto compiono è una colpa morale oltre che un reato civile.