Economia
Introdurre in salario minimo a 9,5 l’ora rivoluzionerebbe il mondo del lavoro. Tagliare le tasse sui redditi vuol dire accollare allo Stato gli indispensabili aumenti salariali di cui le famiglie hanno bisogno
di Gloria Riva
Per il governo il salario minimo non è una buona idea. Ma lo è ridisegnare le tasse sui salari per alleggerire i lavoratori dal peso della fiscalità generale. Il combinato di queste due tesi - no al salario minimo, sì alla detassazione - potrebbe essere definito “metadone di Stato”, espressione che la premier Giorgia Meloni aveva utilizzato per definire il Reddito di Cittadinanza, a favore di quell’imprenditoria che, facendo leva sulla contrazione del costo del lavoro, anziché sull’aumento della produttività, riesce a sopravvivere o, addirittura, ad arricchirsi.
L’introduzione del salario minimo rivoluzionerebbe l’intero tessuto economico perché significherebbe retribuire tutti i lavoratori almeno 9,5 euro all’ora (questa la cifra circolata nelle varie proposte di Legge) al di là del contratto nazionale applicato. Quindi, chi lavora 40 ore a settimana non potrebbe guadagnare meno di 1.520 euro al mese. Ma quella cifra è sovrapponibile al reddito medio dichiarato dai lavoratori dipendenti - 20.720 euro, secondo i dati pubblicato dal Ministero dell’Economia -, e persino superiore a quella denunciata dagli imprenditori (19.900 euro l’anno). E qui sta la rivoluzione: se la forza lavoro meno qualificata guadagnasse 20mila euro l’anno, allora chi ha una qualifica superiore pretenderebbe di più.
Mettiamo un ragioniere, che percepisce 1.215 euro al mese, o un impiegato amministrativo da 1.300 euro. A cascata gli imprenditori dovrebbero rendere i propri stabilimenti più produttivi, pur di trattenere i dipendenti e pagarli il giusto. Perché, come dice l’Ocse, l’Italia è l'unico paese europeo in cui i salari, tra il 1990 e il 2020, sono diminuiti (meno 2,9 per cento), anziché aumentare, come è avvenuto in Germania (più 33), in Francia (più 31), in Spagna (più sei per cento). L’economista Ocse Andrea Garnero spiega che l’indiziato numero uno è il blocco della produttività, che ha colpito molti paesi nell’ultimo trentennio e l’Italia in modo particolare: «Pesano l’inefficienza del settore pubblico, risorse male allocate, insufficienti investimenti in tecnologia, scarsa meritocrazia o a una contrattazione aziendale poco sviluppata», dice Garnero, che continua: «Nel passaggio all’economia dei servizi, l’Italia ha puntato su segmenti a basso valore aggiunto, come il turismo, il commercio, che si sostengono attraverso la leva dei bassi salari». Ecco spiegato come mai balneari e ristoratori ce l’hanno tanto con il reddito di cittadinanza: in alcuni casi gli stipendi che offrono, tre o quattro euro l’ora, non sono competitivi con il sussidio contro la povertà.
Anche la proposta del presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, di tagliare le tasse sul lavoro agendo sulla leva contributiva, va nella stessa direzione. E infatti nel question time alla Camera della settimana scorsa, la premier Giorgia Meloni ha detto che «l’obiettivo» della riforma del fisco sarà «un minor carico fiscale per tutti i contribuenti, con particolare attenzione ai redditi medio bassi». Così facendo, anziché liberare gli imprenditori dai lacci della burocrazia e fornire linee di indirizzo chiare sulle scelte di economia politica che si intende intraprendere, linea che manca da decenni, si cerca di favorire gli imprenditori togliendo loro l’onere di aumentare gli stipendi ai dipendenti.
In base ai dati Ocse, l’Italia ha un regime di tassazione dei redditi al 46 per cento, in linea con Francia e Germania - 48 per cento circa -, e nella media dei paesi più avanzati. Anziché favorire un taglio della tassazione, ci sarebbe da riqualificare la capacità di spesa pubblica, ridando slancio ai servizi - scuola, sanità e trasporti pubblici -, per giustificare tale prelievo.
Anche perché «se l’obiettivo è aumentare i salari netti, non è detto che ridurre la tassazione sia il modo più efficace per farlo», commenta Andrea Garnero, che aggiunge: «Gli interventi già effettuati in questo senso ci dicono che le decontribuzioni hanno creato nuovi posti di lavoro, ma sui salari netti non si è visto alcun effetto. Infatti il taglio del cuneo ha comportato sforbiciate agli enti locali che, a loro volta, hanno deciso di aumentare le imposte da loro controllate, come l'addizionale Irpef, annullando l’effetto della decisione presa a livello nazionale. Inoltre esiste la possibilità che un imprenditore dica al dipendente: “Finora ti pagavo tremila euro lordi per darti 1.500 euro netti, ora grazie al taglio del cuneo, avrai sempre 1.500 euro netti ma io pago 2.800 lordi”, magari adducendo la ragione vera o falsa di salvaguardare il posto di lavoro in tempi difficili». Funziona così, laddove la capacità contrattuale dei lavoratori è scarsa. E in Italia lo è, eccome.
Matteo Gaddi, ricercatore del Centro studi Claudio Sabattini della Fiom Cgil, ha condotto un’analisi sui bilanci aggregati delle aziende con sede legale in Italia in modo da ottenere i valori complessivi delle principali voci del conto economico: «Nel quinquennio 2017-2021, a un economia sostanzialmente stagnante - il Pil è cresciuto di appena il 2,6 per cento - si contrappone un aumento degli utili aziendali dell’80 per cento, mentre l’aumento dei redditi da lavoro dipendente si attesa al sette per cento. È evidente la forte ridistribuzione del reddito a favore delle imprese». Se rapportato alla quantità di beni e servizi ottenuti dall'impresa, «il costo del lavoro pesava il 12 per cento nel 2017, nel 2021 è sceso all’11 per cento. È quindi evidente che le scelte di politica economica e l’inflazione hanno favorito le imprese e i loro profitti, a scapito dei salari dei dipendenti, che sono rimasti al palo».
E i profitti stanno continuando ad aumentare in modo sconsiderato, come ha evidenziato Fabio Panetta, componente del board della Bce: «In alcuni settori industriali i profitti hanno avuto un forte aumento, se il comportamento opportunistico delle imprese allontanasse la riduzione dell’inflazione, innescherebbe una reazione di politica monetaria». Panetta sta dicendo che alcune imprese sono state veloci nel rialzo dei prezzi dei propri listini, a fronte degli aumenti delle materie prime e del costo dell’energia, ma ora non sono altrettanto rapide nel rivedere al ribasso quei prezzi, ora che l’inflazione si sta raffreddando. Il centro studi Ref ha calcolato in 32,1 miliardi il margine delle imprese nei tre anni dal 2019 al 2022, con picchi di aumenti del 110 per cento nell’energia elettrica e del 40 per cento nelle costruzioni.
Ma se le aziende diventano più ricche, perché dovrebbe essere lo Stato - attraverso il taglio del cuneo fiscale - a mettere più soldi nelle tasche dei lavoratori? Tanto più che non è per nulla dimostrato che il taglio delle tasse finisca a vantaggio dei dipendenti, mentre di sicuro ci rimetteranno i servizi pubblici.