Nel conclave è avvenuto tutto in modo fluido e veloce. Sapevamo che il candidato argentino poteva essere l'artefice della pace contro le fazioni in lotta. E quando siamo usciti, abbiamo ricevuto molti inaspettati complimenti. Un cardinale racconta

Uscito dalla clausura del Conclave, dopo aver eletto papa Francesco, mi sono avviato lungo Borgo Pio e al di là del Tevere in mezzo alla gente. È stato proprio là che ho sentito quasi il respiro di un popolo: c'era chi, passandomi accanto, mi diceva semplicemente «Grazie!»; c'era chi fermava l'auto e dal finestrino gridava: «Siete stati bravi!»; c'è stato persino uno, dichiaratosi non credente, che scherzando mi diceva: «Sarei quasi tentato di credere allo Spirito Santo!».

La scena si è ripetuta davanti al mio computer ormai intasato da un filo ininterrotto di email con la stessa litania di adesioni entusiastiche, ben lontane dagli stereotipi delle congratulazioni rituali.Molti mi avranno visto, nella diretta dell'ingresso solenne in Conclave, mentre con gli altri 114 colleghi cardinali proclamavo il giuramento sul segreto. Non dirò, perciò, nulla delle poche ore trascorse nella maestà suprema della Sistina, soli con quelle schede che, uno dopo l'altro, tenevamo alte in mano per deporle sull'altare sotto la presenza imponente del Cristo Giudice michelangiolesco, pronunciando in latino l'antica e potente formula: «Chiamo a testimone Cristo Signore, il quale mi giudicherà, che il mio voto è dato a colui che, secondo Dio, ritengo debba essere eletto».

E tutto, contro le infinite ricostruzioni e ipotesi giornalistiche, è avvenuto con un'inattesa fluidità, facendo balenare ben presto quel volto che ora tutti conoscono. Il confronto è un po' impietoso ma spontaneo: mentre nelle vicine aule del Parlamento italiano giovani deputati si devono sottoporre a estenuanti dispute per ottenere un risultato positivo, un senato di anziani cardinali ha subito intuito l'attesa del mondo e l'ha resa realtà in una figura emblematica.

Aveva ragione ancora una volta Pasolini quando, nel 1968, scriveva: «Il mondo della storia tende nel suo eccesso di presenza e di urgenza a sfuggire nel mistero e nell'astrattezza. Il mondo del divino, nella sua religiosa astrattezza, al contrario, discende tra gli uomini, si fa concreto e operante».

Ormai i primi atti e parole di papa Francesco, senza complessi discorsi programmatici, hanno tracciato un percorso nitido per la Chiesa, icasticamente inciso nelle menti di tutti con la trilogia della sua prima predica: «Camminare – edificare – confessare». Il nome assunto ne è quasi il condensato perfetto. Francesco è il testimone assoluto di Cristo fino al punto di averlo impresso nella sua stessa carne con le stimmate. È il discepolo della Parola di Dio, la Scrittura "senza glossa" o adulterazione. È l'uomo della semplicità, dell'essenzialità, della povertà e della scelta degli ultimi. È il sostegno della Chiesa, quando ne scopre le crepe, ma è anche il viandante del dialogo, pronto ad approdare nel 1219 a Damietta per incontrare (senza sincretismi e senza integralismi) il sultano d'Egitto, al-Malik al-Kamil. È il cantore della terra vista come nostra sorella e di tutto il creato, segno epifanico del suo Creatore. È l'artefice della pace contro le fazioni in lotta.

Certamente tante altre sfide attendono il Francesco di oggi, alcune anche più modeste ma non per questo marginali: si pensi solo alla riforma della Curia romana, attesa dagli stessi cardinali oltre che da tutti i fedeli. Come membro di questa istituzione, è spontaneo anche per me esserne consapevole e, quindi, impegnarmi accanto a papa Francesco.

Non ho ricordi personali col cardinale Bergoglio da evocare, se non quello che mi ha confidato nel tratto che abbiamo percorso casualmente insieme nelle sale del Palazzo Apostolico prima di entrare in Sistina, proprio quel pomeriggio del 13 marzo. Egli con un filo di ironia mi confessava di essermi debitore di vari diritti d'autore, perché a Buenos Aires aveva usato molti miei testi sia per le sue omelie e catechesi, sia per due corsi su Giobbe e sui Salmi. Il nostro era, perciò, un legame, per usare la voce di Cristo, attorno all'«unica cosa di cui c'è bisogno», ossia l'ascolto della Parola divina, come faceva Maria rispetto a Marta distratta e «agitata dalle troppe cose» (Luca 10,41-42).

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