La città è stata un laboratorio di buone pratiche. Che può fare da esempio e trainare tutto ?il Paese. Purché la politica ora non si incarti. Parla il super-prefetto del capoluogo lombardo

A Milano è tutto un altro clima. Mai come ora Roma appare lontana. Perché se il cielo è già quello d’autunno, la città invece continua a vivere una lunga primavera, che nell’Expo ha trovato l’occasione per conquistare consapevolezza. L’assalto finale dei visitatori ai padiglioni in vista della chiusura del 31 ottobre, pone però i dubbi sulla tenuta di quest’ondata di entusiasmo, alimentati dalle incertezze che vengono dalle istituzioni locali e nazionali.

Sul destino dell’area espositiva, che dovrebbe consacrare la nuova vocazione universitaria della metropoli, ci sono tante parole e poche decisioni operative. Il che, assieme al vuoto di candidature vincenti nell’imminente partita per il sindaco, fa temere sulla capacità della politica nel sostenere la ripresa ambrosiana. Il successo di Expo infatti è percepito come opera di commissari, da Giuseppe Sala a Raffaele Cantone, sotto la regia di una figura che non ama comparire ma ha di fatto esercitato la funzione di superprefetto: Francesco Paolo Tronca.

Dalla lotta alle infiltrazioni mafiose alle misure di contrasto della corruzione, dalla pace sociale negli scioperi e negli sgomberi fino alla gestione dell’esodo di profughi, da parecchi mesi il prefetto porta avanti quello che per il Giubileo toccherà a Franco Gabrielli. Lo fa senza poteri speciali. Ma Tronca è convinto che «Expo è un successo di tutti, la dimostrazione di quello che istituzioni e politica sanno realizzare quando fanno squadra. Non è retorica, si tratta di una percezione diffusa che ho toccato con mano. Usando una frase abusata, si può dire che Milano è stata un laboratorio di buone pratiche. Perché non avevamo precedenti a cui ispirarci e quindi abbiamo immaginato la direzione giusta da percorrere. E oggi in tutta la città si percepisce questa sensazione di cambiamento: è tornata la voglia di rimboccarsi le maniche e lavorare per il futuro. Deve essere prodromica a una primavera di tutta Italia, essere trainante per l’intero paese agli occhi del mondo».

Il 31 ottobre però si avvicina e mancano piani esecutivi sul futuro dell’area espositiva: se la politica non si muove, toccherà di nuovo ai commissari prendere in mano la situazione? «No, non esiste: sarebbe un esproprio, un’invasione di campo. La logica del dopo Expo sarà diversa, si tratta di scelte che determineranno i prossimi decenni dell’intera area metropolitana. Vanno prese dalla politica a partire dal territorio e devono essere meditate a fondo: ben venga una fase di illuminata meditazione politica, esaltando il principio del confronto democratico».

A dispetto dei modi tradizionali e del rispetto istituzionale, Tronca ha però una visione modernissima della sua funzione: «Oggi il prefetto ha una responsabilità molto ampia e per questo deve svolgere il suo ruolo a tutto tondo. Bisogna che sia pronto a toccare qualsiasi dinamica, entrando nella realtà e sporcandosi le mani in prima persona. Non si può restare chiusi in ufficio, dietro la scrivania e lavorare per atti e proclami: questo non è più concepibile in una società che viaggia a velocità fortissime».

Proprio la sfida posta dalla velocità dei processi sociali rende attuali due questioni antiche: l’importanza della prevenzione e la necessità che le cariche istituzionali si tengano lontane dalla politica. «La forza del prefetto è la sua terzietà, il rimanere super partes gli permette di non prestarsi a polemiche e strumentalizzazioni, ma agire soltanto per obiettivi e risultati. Accelerando, perché la società lo fa. Per questo il prefetto deve calarsi nella società e intercettare quali possono essere gli sviluppi dei fatti emergenti, cogliere le patologie sociali prima che degenerino, avere una sensibilità avanzata».

Forse ispirato dalla sua passione per Giuseppe Garibaldi, il prefetto però non teme l’azione, anzi: «Non si tratta di scavalcare la filosofia del contrasto, bisogna sempre essere pronti ad affrontare di petto le problematiche e a farlo in modo efficace. Ma oggi bisogna ragionare soprattutto in termini di prevenzione. L’azione può essere chirurgica e risolutiva, solo se intercetti i fenomeni prima che degenerino e agisci a colpo sicuro».

A Milano questo è accaduto con il contrasto alle infiltrazioni mafiose. Fino ad oggi la Prefettura ha emesso 95 interdittive nei confronti di 64 aziende: provvedimenti che attualmente sono stati tutti confermati dalla giustizia amministrativa. «Ritengo che la nostra esperienza sia apripista di un nuovo modo di intendere la lotta alle mafia. Le interdittive che allontanano le società dagli appalti pubblici presuppongono una serie di approfondimenti accurati e sofisticati, basati sull’analisi del contesto a 360 gradi. Il vecchio certificato antimafia aveva un valore burocratico, invece adesso c’è un approccio dinamico, reso possibile dall’incrocio delle banche dati e dai controlli fisici nei cantieri che, oltre a rendere difficile l’ingresso degli emissari dei clan, innesca un circuito virtuoso di legalità che permette di scoprire subappalti irregolari, lavoro in nero, caporalato e impianti insicuri».

Sul fronte degli scioperi nei mesi di Expo è filato tutto liscio. Spesso ci sono state precettazioni, ma sembra avere funzionato anche la concertazione con i sindacati. Questo è stato solo un momento felice dovuto all’evento? «È possibile, visto che tutti si sono mostrati molto responsabili. Ma più volte ci siamo trovati davanti a posizioni intransigenti. Nel momento in cui si proclama un’agitazione che può bloccare una delle linee che fanno arrivare a Expo migliaia di persone provenienti da tutta Italia e anche dall’estero, e non c’è neppure la disponibilità a spostare la protesta dal fine settimana a un giorno feriale, allora il prefetto deve compiere un’analisi e poi agire. In certi momenti non c’è cosa peggiore che non decidere. Invece bisogna assumersi la responsabilità di scegliere, esercitando anche il coraggio istituzionale di capire quale dei due diritti riconosciuti in quel momento è prevalente e crea meno disagi per l’ordinamento generale o rischi per la pubblica incolumità. Vale per le manifestazioni pubbliche, vale per ogni momento della vita cittadina. La recessione economica ha incrementato disoccupazione e povertà, aumentando la fragilità sociale. Ognuno deve fare la sua parte, è arrivato il momento di guardarci in faccia. È l’inazione che non risolve nulla e fa aumentare le patologie sociali, alimentando polemiche e strumentalizzazioni politiche. Se c’è un guasto, bisogna agire prima che si ingrandisca».

A Milano salvo due giorni di emergenza nella Stazione Centrale sembra che l’accoglienza abbia funzionato. Perché è presente nel dna dei milanesi? «Milano ha svolto sforzi non inferiori ad altre regioni: gli arrivi sono stati massicci, ma c’è stata una grande lezione di solidarietà. Non possiamo ancora parlare di accoglienza: è un aspetto che potremo valorizzare solo quando passeremo al secondo livello e disporremo di un sistema di distribuzione sul territorio che consenta integrazione maggiore e qualità della vita. Quello che stiamo vivendo è ancora legato a una fase iniziale: accogliamo i profughi e li smistiamo tra le province. Dobbiamo coniugare legalità e solidarietà, perché la solidarietà fine a se stessa non basta. L’umanità che sbarca sulle nostre coste spesso ha dietro un passato di guerra, non ha un presente e il suo futuro è legato alla nostra responsabilità».

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