Un maiale, non si sa se vero o immaginario, scorrazza per le strade di Bruxelles scatenando prima il panico, poi l’ilarità e infine la simpatia se diventa oggetto di un referendum sul nome da dargli tra i lettori di giornali. È l’oggetto di un dibattito serrato e senza esclusione di colpi tra difensori dei diritti degli animali e voraci mangiatori di carne. Allevatore di maiali è un austriaco, fratello di un funzionario dell’Unione europea, che vorrebbe sfruttare le enormi potenzialità del mercato cinese unendo gli sforzi continentali e si ritrova a combattere contro gli egoismi nazionali dei rapporti bilaterali con Pechino prima di rimanere ferito in un incidente stradale al confine ungherese in uno dei momenti più drammatici della crisi dei rifugiati. Il maiale è anche, naturalmente, l’animale vietato per i musulmani e benvenuto nelle tavole d’Europa, emblema di usi e costumi differenti obbligati a convivere.
Il libro del sessantatreenne scrittore austriaco Robert Menasse, "La Capitale" (Sellerio, 445 pagine, 16 euro, l’autore sarà al Festivaletteratura di Mantova l’8 e il 9 settembre), è già stato un caso in Germania dove ha venduto 270 mila copie, uscirà in altri 24 Paesi, ed è un puzzle di storie intrecciate prese a pretesto per raccontare i meccanismi con cui funziona la pletorica burocrazia di Bruxelles.

Il meccanismo narrativo è al servizio dell’idea di umanizzare un’entità astratta, la famosa "burocrazia” che è formata da persone con pregi e difetti. Se non l’amore, c’è il sesso tra espatriati nella babele degli uffici, c’è il vissuto di gente arrivata in Belgio, qualcuno con sincero spirito di servizio, altri per cinico calcolo di carriera: come in ogni azienda. I piani di racconto si snodano su percorsi paralleli non sempre felicemente intrecciati, accomunati da una cifra talvolta volutamente grottesca, il contraltare ridanciano della fredda analisi di quel mondo percepito come così lontano eppure così decisivo per le nostre esistenze.
Il filone portante è ambientato all’interno della sezione Cultura, purtroppo il più insignificante e bistrattato a causa del budget risibile, conseguenza dello scarso peso specifico. La funzionaria greca Fenia Xenopoulou cerca di evadere da quel consesso stretto per approdare in una Direzione più prestigiosa. Ma le serve un progetto che la metta in luce e le consenta di candidarsi a una poltrona più adatta alle sue ambizioni. Lo trova in un’intuizione di un sottoposto reduce da una visita ad Auschwitz dove gli hanno fornito un badge con la scritta "Guest of honour” e sul retro: "Non perda questa tessera. In caso di smarrimento non avrà più diritto a restare nel lager”. E sembra inconcepibile umorismo nero.
Proprio da quel viaggio gli viene l’idea di organizzare un grande evento al campo di concentramento per commemorare l’anniversario della nascita della Commissione. Ha un senso. Auschwitz simboleggia il motivo per cui l’Europa è nata, è il "mai più”, è il tabù insuperabile in cui tutti possono riconoscersi, è insomma il ritrovare le ragioni originarie per ridare slancio all’immagine offuscata e ricordare ai popoli quanto le istituzioni sovranazionali siano state importanti per garantire il più lungo periodo di pace sul suolo del Vecchio Continente.
Sarebbe magnifico se vi partecipassero gli ultimi sopravvissuti, i custodi della memoria diretta. Ma quanti sono? Dove vivono? Come rintracciarli se non ne esiste un elenco? Nel sottotesto: e una volta scomparsi tutti loro, finirebbe anche l’Europa? Ipocritamente accettato tra sorrisetti e rassicurazioni ambigue, il progetto Auschwitz nasce in realtà già segnato. E a dargli il colpo di grazia con audace mossa da spadaccino quale fu è il capo di Gabinetto del presidente della Commissione, il conte italiano Romolo Strozzi, talmente aduso ai meccanismi del potere nelle segrete stanze da intuirne la pericolosità.
Perché Auschwitz, col tempo, da elemento unificante è diventato elemento divisivo. I polacchi lo considerano un campo di sterminio esclusivamente tedesco e non vogliono essere apparentati a quel nome, per gli austriaci è una minaccia alle stesse fondamenta del proprio Stato. In una iperbolica dilatazione del politically correct, i tedeschi obiettano che si potrebbero considerare colpevoli di quell’orrore anche i musulmani, ormai in gran numero nelle contrade d’Europa e per quel nefasto passato assolutamente innocenti. La proposta della Commissione si scontrerebbe con il no sicuro del Consiglio d’Europa dove gli Stati membri continuano a difendere l’interesse nazionale, a maggior ragione in quest’epoca di sovranismo e populismo montanti: dunque meglio cassarla. È il nocciolo del messaggio politico di Menasse. Se l’Europa non funziona è a causa del potere ipertrofico del Consiglio a scapito di una Commissione costretta ad assecondarne gli umori. Perdendo così di vista l’approdo disegnato dai padri fondatori: gli Stati Uniti d’Europa.
Per allusione sfiorano il racconto i fatti più importanti accaduti negli ultimi anni. La Brexit, gli attentati di Bruxelles in cui periscono alcuni dei protagonisti, la crisi dei migranti vera cartina di tornasole per il futuro del Continente. Che deve decidere se difendere i valori dell’Illuminismo e dei diritti dell’uomo su cui si è forgiata diventando un esempio per l’intero pianeta o piegarsi all’egoismo tribale.
Sparsi qua e là i segni di una storia comune che non bisognerebbe dimenticare. Come i cimiteri di Bruxelles con le loro croci tutte uguali dove hanno trovato riposo le vittime della guerra che combatterono i totalitarismi. E che dovrebbero servire da memento per chi pensa di ricostruire muri. Nel testo compaiono anche, volutamente non tradotte, frasi nelle diverse lingue, a sottolineare una complessità che è una ricchezza. E si scorgono, nel viennese Menasse, i retaggi dell’esperienza di quell’Impero austro-ungarico che implose, tra l’altro, a causa dei nazionalismi.
Bruxelles è un minuetto, una danza di corte, dove ci si muove a piccoli passi per evitare l’inciampo, senza più lo slancio di un volo ardito. L’abitudine al compromesso ha finito per corrompere fin quasi ad annullare l’iniziativa, fino a restringere gli orizzonti per sopravvivere. In definitiva dove tutto è diverso dai proclami reboanti sui principi.
Dal politico al personale è ciò che fanno Fenia Xenopoulou e Kai-Uwe Frigge, della Direzione generale per il Commercio quando finiscono a letto insieme: «Lui simulò il desiderio, lei l’orgasmo. Un’alchimia perfetta».
Robert Menasse sembra suggerire all’Europa che è venuto il momento di smetterla di fingere.